venerdì 29 aprile 2016

La granita, le felci e ...




La colazione, per noi siciliani, è sacra e nella mia famiglia era ed è un "rito".
Mia madre sin da giovane, scandalizzando tutti, preferiva la colazione al bar e ha continuato a farlo a Palermo e infine a Torino dove ha vissuto, insieme a me, l’ultima parte della sua vita e dove, finalmente “ si è sentita a casa”, così si esprimeva nei confronti di questa splendida città che ci ha accolto affettuosamente.
In Sicilia il bar, chiamato“ tavola calda”, ingloba più funzioni: Pasticceria, forno, caffetteria, gelateria e rosticceria dove puoi trovare dal dolce al salato; E' il luogo dove, ad ogni ora della giornata, si può consumare un pasto veloce e sfizioso.
 D’inverno, a Catania, prima di andare al lavoro, si fa colazione con il cornetto e il cappuccino e l’iris, panino fritto, riempito di crema bianca o al cioccolato, i panzerotti ripieni e, verso l’ora di pranzo, la scelta cade spesso su uno squisito arancino, una sfoglia con cipolla e frutta.
Durante le belle giornate estive invece ci si disseta con il latte di mandorla e si fa colazione con la famosa granita, che sostituisce il cappuccino e che la fa da padrone nei gusti più vari, accompagnata dalla “ brioscia calda col tappo”.
Mio padre spesso ci parlava della granita, della sua storia: Molto probabilmente, diceva, la sua ricetta deriva dalla preparazione di una bevanda araba lo sherbet, un succo di frutta aromatizzato, usando la neve raccolta sull'Etna o su altri monti siciliani  (Nebrodi, Peloritani, Iblei).
Molti documenti, fin dal XI sec., ci raccontano dell'uso assai antico di produrre neve ghiacciata, da utilizzare nei mesi estivi e ancora adesso la neve, caduta in inverno, viene conservata dentro delle grandi buche, poi la compattano,  la solidificano e poi la vendono in estate. Anche voi sapete che arriva nella città e nei paesi, con i muli o con i carretti dove le "balate di ghiaccio" (grosse lastre), avvolte in teli di canapa, protetti superiormente da un altro strato di felci.
"E' vero, papà! L'acquaiolo ci vende il ghiaccio, su foglie di felci, per proteggere le mani dal freddo, e Gaetano, a me non lo permette mai, lo porta a casa."
E ancora oggi, quando il ricordo fa riemergere le scene di guerra per arraffarne di più, mi rivedo con i miei fratelli, dopo grosse litigate a chi doveva cominciare per primo, mentre ci divertivamo a grattare la superficie, per preparare la nostra granita al limone o all'arancia.
Quanta regalità e colore davano quelle felci, a quella massa gelida e trasparente e quanto ghiaccio, con dieci lire!

Come preparare, a casa, la granita al limone
Ingredienti
Limoni 4, zucchero 150 g., buccia di limone senza la parte bianca, 1 L di acqua

Preparazione
Lavate accuratamente i limoni, spremeteli e conservate il succo. Portate ad ebollizione, in una pentola capiente, il litro d’acqua in cui avrete sciolto lo zucchero, mescolare bene per 2 minuti.
Togliete la pentola dal fuoco, aggiungete il succo e la scorza del limone, coprite la pentola con un coperchio e fate riposare per ½ h.
Utilizzando il colino, filtrate il liquidi, versando in un contenitore adatto per il freezer, aspettate che il liquido si raffreddi quindi chiudete il contenitore con un coperchio e mettetelo in freezer. Controllate regolarmente lo stato di congelamento  e quando si sarà ghiacciato del tutto, tiratelo fuori e passatelo o al mixer o al frullatore, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno, per amalgamare bene il tutto  e tritarlo uniformemente. Rimettete il composto nel contenitore e poi nel freezer per completare il processo di congelamento, fino ad ottenere la consistenza desiderata. La granita è pronta! Anche se non è autentica, è molto buona.

mercoledì 27 aprile 2016

Antichi sapori e il modo contadino




Quando sento certi profumi, sapori, torno indietro col tempo, alla piccola strada di Paternò, che comprendeva tutto il mio mondo e che rimane nitida, nella mia memoria, come in una fotografia: Le donne che comunicavano dai balconi, sempre attente quando noi bambine giocavamo nella via, come fossimo stati figli della piccola comunità, che si capivano dallo sguardo, che sapevano quando dovevano esserci, e io che le consideravo maghe perché arrivavano al momento giusto e, senza chiedere spiegazioni, davano il loro supporto.
E, quante volte, quando ne combinavo qualcuna, mi facevano scudo, per evitarmi gli sculaccioni; da piccola, in effetti, non ero molto tranquilla, ero vivace e, come diceva mia madre, mi comportavo da maschiaccio: E’ vero, non giocavo con le bambole, mi divertivo ad arrampicarmi sugli alberi, a scalare i muri, a tentare spedizioni nelle case diroccate dal bombardamento, e nella via ce n’erano parecchie, ma soprattutto stuzzicavano, la mia curiosità, i divieti come quello, imposto, nei locali delle provviste, nel sottoscala della casa della nonna, da dove, tutti i giorni vedevo entrare e uscire la mamma e le zie, portando o lasciando contenitori, oggetti strani e cibo .
La zona off limits era controllata a vista, sempre dalla nonna / guardiano che, un giorno, stanca di dover stare sempre all'erta, decise che era giunto il momento di farmi visitare il luogo, la mia ossessione.
Quanta emozione! Come una guida turistica, prendendomi per mano, diede inizio al  “curioso” viaggio; mi batteva  forte il cuore mentre, lentamente, scendevamo la scala, poco illuminata: Incredibile, la parete era tappezzata da meloni invernali, gialli e verdi, chiusi in una retina, appesi in forma geometrica, grappoli d’uva, da essiccare, fichi secchi, infilzati nelle canne e a trecce, farcite con le noci e,  nella parete di fronte, appesa,  la salsiccia a tocchi, posta ad asciugare, per diventare salame, il maialino non era quello allevato in campagna, specificò la nonna, per tranquillizzarmi.
E invitandomi a stare attenta ai gradini in pietra, mi fece notare che, su ognuno, era posto un cesto, con frutta acerba: “Vedi  in quel cesto, disse la nonna, ci sono le mele cotogne, simbolo di buon auspicio e fecondità, nei banchetti matrimoniale e che, per il suo particolare profumo, noi donne, ne  poniamo alcune, tra la biancheria; quando saranno mature, continuò, buona parte diventerà marmellata che, aggiunta a quelle di altri frutti”, servirà per farcire dolci e per la colazione mattutina. Attratta da una cesta, posta più in basso, con dei frutti nella paglia, chiesi cosa fossero:”Sono le sorbe, che, sotto la paglia, avvizziscono e diventano dolci, con la polpa farinosa e molli e quindi buoni da mangiare, lo dice, anche, il detto: “ Cu lu tempu e cu la pagghia maturano li sorbi”, e si racconta che, grazie ai suoi colori caldi ed intensi, siano considerati un portafortuna contro la miseria e la fame e hanno anche il potere di allontanare tutti i mali.

E poi mi indicò gli ‘nzizula, i giaggioli, acini rossi dalla polpa farinosa e dolciastra, simili ai datteri, che, insieme alle mele cotogne, all'uva bianca e alla scorza di limone, danno quella bevanda che si offre agli ospiti, disse. E ancora, gli  azzeruoli, i corbezzoli e i granati, cioè i melograni, e intanto eravamo giunti all'ultimo gradino e finalmente, ci ritrovammo in un grandissimo ambiente, dove c’era di tutto.
Incredibile! Un grande bazar: Botti, grandi giare, piene l’olio, sacchi di grano tenero e quello per panificare, pieno di sapore e odore e molto digeribile, spiegò la nonna, e tante “burnie”di vetro e contenitori di terracotta. 
La interruppi, bruscamente, per chiederle perché era stato conservato tanto cibo, in un luogo cosi nascosto:”La famiglia patriarcale, rispose la nonna, trae quanto è necessario, dall'agricoltura; la nostra è un’alimentazione semplice e spesso insufficiente perché condizionata sia dal raccolto incerto, vincolato al buono o cattivo tempo, profilando lo spettro della fame, che da quell'intenso e breve periodo in cui cessa la produzione di frutta e ortaggi. E’ necessario, quindi, conservare il raccolto e preparare le conserve alimentari, per sfruttare al meglio la grande varietà di frutta e ortaggi, offerti dalla bella stagione per consumarli, durante l’inverno. E il compito è sempre stato affidato a noi donne che, sapientemente, conserviamo i prodotti di stagione sotto sale, nell'aceto, oppure essiccati, tecniche tramandate nel tempo. 
Ti ricordi, disse la nonna, quando, l’estate scorsa, noi donne del quartiere, riunite in campagna, al calar del sole, preparammo l’estratto di pomodoro, gli ortaggi tagliati, gli odori freschi sminuzzati e, i pomodori secchi farciti,  con olive e capperi e, insieme  alle verdure, li mettemmo sotto aceto e sottolio, riempiendo i contenitori di terracotta smaltati? Vedi, sono lì, sopra quei vecchi mobili e ne abbiamo molta cura, insieme a tutte le altre provviste, non solo perché rappresentano il necessario alla sopravvivenza, ma anche perché danno il senso, anche visivamente, del pesante lavoro, durato tutto l’anno, nei campi, nell'orto, nella vigna, e il momento di silenzio e gli occhi umidi della nonna, evidenziarono il senso di religiosità del lavoro. Nell'angolo invece, ci sono sacchi di legumi e di patate che sono gli ingredienti principali per le minestre e le zuppe che noi privilegiamo, rispetto alla pastasciutta che mangiamo, qualche volta, la domenica, con qualche pezzetto di carne; e poi ancora “burnie” con la mostarda di mosto e cu l’alivi cunsati e ancora sacchi di frutta secca, noci, nocciole, mandorle che permettono di preparare dolci squisiti, nelle grandi festività ma, soprattutto, arricchiscono le nostre tavole, diventando il passatempo della famiglia, nel dopo cena. Adesso  è tempo di tornare in casa, andiamo a preparare il pasto e, visto che, per te, questo è diventato un giorno di festa, ti preparerò la carne agli odori di orto, quella che ti piace tanto.
E mentre la nonna si occupava del pasto, io mi allenavo sul muro con il gioco dei “ munzeddi di nucidi”, mucchietti di nocciole, nocciole che mi ero messa in tasca, prima di risalire; volevo diventare brava come mio fratello Gaetano che riusciva a colpire i mucchietti di nocciole, i totari, così si chiamavano, da una distanza di 10 metri, usando una nocciola più grande detta “ballu”, ma fui chiamata dalla nonna, mi avviai verso la cucina, il pranzo era pronto!.  
Quanti ricordi! Giochi semplici, fatti con piccoli oggetti come il legnetto, le nocciole, le pietre tonde e lisce e quanti sapori antichi, quei prodotti della terra di cui molti giovani non sanno e forse non ne conosceranno mai il sapore: I ‘nzizuli, le sorbe, i corbezzoli, le mele cotogne.
Io questi frutti, li ho conosciuti, li ho anche raccolti, da bimba, con il mio nonnino, ma soprattutto ne conosco il sapore, unico e straordinario! Tempo che fu, purtroppo!.

Fettine agli odori

 Il sapore è ancora oggi un mix tra l’aroma dell’origano, intenso e stimolante, quello dell’aglio, del pomodoro e il sughetto rilasciato dalla carne. Vi assicuro, è genuino, una prelibatezza!
La preparazione di questa facile ricetta vi permetterà di gustare un buon secondo o un buon primo, se utilizzerete il condimento, per condire gli spaghetti.

Ingredienti
fettine di manzo, olio extravergine, pomodoro fresco tagliato a pezzettini e schiacciato con la forchetta ( pelati sammarzano o pachino, mai salsa di pomodoro), origano e aglio di qualità, sale e pepe.

 Preparazione
In una casseruola, versate il pomodoro a pezzetti e distribuitelo, sul fondo con un filo d’olio, quindi depositate le fettine di manzo di circa 2 cm, salate e pepate. Distribuite sulle fettine ancora pomodoro a pezzetti, l’origano, l’aglio tritato e completate con un filo d’oli extravergine.
Cuocere per circa 10 minuti, quindi, ancora caldo servite a tavola.

Ricordate che il pomodoro fresco e crudo permette, con la sua naturale acidità, di rendere più morbida e gustosa la carne.

lunedì 25 aprile 2016

"U gattò ri carusi"





Ricordo la grande cucina dove la nonna preparava i pasti quotidiani, davanti ai fornelli in muratura, alimentati dalla legna che il nonno provvedeva a portare dalla campagna; ma ricordo soprattutto i profumi delle pietanze, dopo la cottura, che venivano consumati, molto spesso, come piatto unico perché contenevano tanti ingredienti, da saziarti. Il gattò o grattò come lo chiamano, i palermitani, tramandato da madre in figlia, era uno di questi:  Piatto unico, nutriente e succulento, tanto da non potersi fermare ad una sola fetta, una squisitezza che la nonna, ogni venerdì, preparava, soprattutto, per noi nipoti. Era una ricetta antica quella della nonna, un piatto di recupero,con i piselli, il formaggio e  i rimasugli di salumi, cucinati in padella dalla quale si sprigionava, per tutta la casa, un profumo che bastava a far venire l’acquolina in bocca; ma, accadeva di cuocerlo in forno, in una teglia di alluminio, dopo aver sfornato il pane casereccio della settimana. Tutti noi nipoti  aspettavano il venerdì, ma io più degli altri perché ero l’assistente della nonna, poverina, costretta dalle mie insistenze, nella preparazione, e poi tutti ad aspettare, la sera, il nonno tornava dalla campagna tardi, momento in cui, attorno al tavolo di marmo, gustavamo quella squisitezza: Tante porzioni grandi e piccole, da poter fare il bis e il rimanente il giorno dopo, ancora più buono.
E lo stesso appuntamento lo avevamo anche per la festa di santa Lucia e anche quando si andava in campagna: Seguendo il solito rito, u gattò veniva preparato al mattino presto, in modo da consentire a tutti gli ingredienti di “riposare”, di amalgamarsi, diceva la nonna, e poterlo gustare a temperatura ambiente, in un sapore unico. In campagna, si aspettava l’ora del pranzo andando a zonzo e di cose da vedere ce n’erano tante ma non mancavamo di fare una visitina alla “casetta sprofondata” di cui il nonno ci ricordava la storia: La terra presa dal fiume, la costruzione della casa, in prossimità della riva e lo straripamento: “O sciumi a livammu e u sciumi s’arripigghiò “(  al fiume l’abbiamo tolto la terra e il fiume se l’è ripresa), così aveva commentato il suo papà, alla vista della casetta, inghiottita dalle acque. E, poi, andavamo all'acqua rossa, il colore era dovuto al rame contenuto nella roccia, a riempire le bottiglie da portare a tavola e spesso, sapendo che avremmo trovato anche u gattò, preparato dalla zia Nunzia, scommettevamo a chi avrebbe riconosciuto quello della nonna. Ma scommettevamo, per finta, perché era facile riconoscerlo, la scelta delle patate vecchie, le più dolci e, come sosteneva sempre, con meno amido e gli ingredienti, quelli della cucina povera, insomma “u gattò ri famigghia”, mentre quello preparato dalla zia era arricchito da uno strato di ragù. Quando ci siamo trasferiti nel palermitano, mia madre ha fatto propria la ricetta locale, ricca di tanti ingredienti e molto saporita ma carente del più importante degli ingredienti: L’amore e la dolcezza che la nonna trasferiva no '' gattò ri carusi”. 
Che ricordi e che spensieratezza! Per fortuna io continuo a mangiare in modo semplice e naturale come in casa dei nonni e a Claudio, il contadino di fiducia, ormai diventati amici, parlo spesso del mondo della mia infanzia e, ogni tanto, con orgoglio, gli offro un “assaggino” di genuinità siciliana. 


 Qualche notizia in più
Di origine contadina, il gattò di patate, storpiatura del termine francese gateau, sformato di patate, era diffuso fin dal medioevo: Era un piatto alla portata di tutti, genuino ma anche economico e veloce.
Ricetta antica, che ci porta d’oltralpe, dai francesi di cui l’aristocrazia siciliana amava imitarne gli atteggiamenti e le abitudini ma soprattutto la cucina.  Gli ingredienti a buon mercato e la facilità  della preparazione, permise il passaggio nelle tavole povere come piatto unico, contenente ingredienti vari e calorici che saziavano molto.
Il gatò di patate, originariamente, cucinato in padella, ha diverse versioni che caratterizzano non solo le abitudini alimentari e sociali come le scampagnate ma anche le tradizioni religiose di molte città siciliane e Palermo ne è un esempio: In questa città, per la festa di Santa Lucia, tradizione vuole che gli abitanti si astengano, per l’intera giornata, dal consumare farinacei, preferendo riso, verdura e l’apprezzato gatò di patate.

Gatò di patate: Vi presento una versione al forno ma molto semplice
Gratin di patate 

Ingredienti
1 kg di patate bollite e pelate ( preferibilmente vecchie, hanno meno amido), 2 uova, 50 g. di parmigiano, olio extravergine, pangrattato, sale e pepe, 2 fette di mortadella, fette di caciocavallo.

Preparazione

Al passato di patate, ottenuto con il passaverdura, aggiungete due uova , 50 g. di parmigiano, sale e pepe, creando un impasto.
Su una teglia oliata, su cui è stato sparso del pangrattato, disponete la metà dell’impasto ottenuto su cui sistemerete le fette di mortadella e di caciocavallo, quindi  chiudete con il restante impasto la cui superficie verrà spennellata di l'olio e spolverata di pangrattato. Cuocere al forno a 180 per circa 40 m. finché la superficie non sarà dorata.
A cottura avvenuta, lasciare riposare per permettere al "gattò" di amalgamarsi, evitando che si sbricioli, nel tagliarlo.     

                                    

sabato 23 aprile 2016

Linguine agli asparagi e pomodorini: una prelibatezza antica



Ho un ricordo vivo della pietanza agli asparagi selvatici. Come sempre, era il nonno a portare a casa quest’ortaggio che, insieme alla pasta, diventava un ottimo primo. Mia madre, che amava mangiarli soprattutto come secondo piatto, arrivati nel paesino del palermitano, aveva optato per gli asparagi coltivati che, anche se mancanti proprio di quel sapore intenso, risultavano appetitosi.  
Gli asparagi selvatici sono molto pregiati, più saporiti di quelli coltivati in pianura, e vengono impiegati in numerose ricette più che come semplici contorni; proprio per questo sono una specie protetta. Così è scritto nella legge:" Vista la diffusa pratica della raccolta degli asparagi sul territori, ai fini della tutela e preservazione delle risorse naturali, si stabilisce il periodo di raccolta e la quantità possibile da prelevare, solo un chilogrammo”.
Infatti nella stagione di raccolta, la primavera, da marzo a giugno quando i germogli sono ancora teneri, sono molti gli appassionati che partono per lunghe spedizioni boschive e vanno alla ricerca di questo gustoso ortaggio, amarognolo e penetrante.
Ancora oggi, amo gustare "le linguine agli asparagi e pomodorini" e quando il mio contadino riesce a portarli,  mi fa un grande regalo, privilegiandomi nell'acquisto.
Se non li avete mai assaggiati, questo è il momento. 

Linguine agli asparagi e pomodorini
Piatto primaverile, fresco e leggero e facile da cucinare

Ingredienti
Asparagi selvatici: mondarli, lavarli con cura sotto l’acqua e prendere le cimette.
Pomodorini oblunghi, tagliati a meta, aglio, olio extravergine, sale e pepe .
Pasta: linguine

Preparazione

Far imbiondire uno spicchio d’aglio in  una padella con abbondante olio, e dopo aver aggiunto i pomodorini, salare e pepare. Far cuocere per 3 minuti quindi versare le cimette degli asparagi e far cuocere a fuoco basso con il coperchio. Assaggiare e aggiustare di sale.
Dopo aver scolato le linguine, al dente, saltare in padella con la salsa degli asparagi e servire  con l’aggiunta del parmigiano grattugiato.

giovedì 21 aprile 2016

U cunigghiu all'agru e duci



Mio nonno aveva destinato, nella sua campagna, una porzione di terra a orto e una zona per l’allevamento di galline, conigli e qualche maialino da cui la famiglia traeva il fabbisogno. Quando la sera, rientrava dalla campagna, portando, insieme alla frutta e alla verdura, il coniglio , sapevo che il pranzo del giorno dopo avrebbe compreso un piatto succulento, saporito, e delicato “ Il coniglio in agrodolce”, uno dei piatti della cucina tradizionale siciliana e in particolare catanese, esaltato appunto da questa miscela (se vuoi saperne di più su questa salsa, leggi “La salsa in agrodolde, pubblicata nel mese di marzo ).
E’ un ottimo secondo da servire a temperatura ambiente o appena tiepido, mai caldo, per gustare al meglio il connubio tra i sapori. Proprio per questo, si consiglia di preparatelo qualche ora prima per permettere all’agrodolce di assestarsi e sprigionare i suoi profumi.
Vi consiglio di assaggiarlo, stuzzicherà l’appetito.


Cunigghiu all’agru e duci
( coniglio all’agrodolce)

Ingredienti per 4 persone

1 coniglio, tagliato a pezzi, farina, cipolla tritata finemente, olio, brodo vegetale ( non usate il dado).
Marinata, riscaldata non bollita, composta da: 2 bicchieri di vino rosso, 1 cipolla tagliata a pezzi, 3 chiodi di garofano, un ciuffo di prezzemolo, sedano, un rametto di rosmarino, 1 di timo, due foglie di salvia, 1 di alloro, sale e pepe. Lasciate marinare per circa 2 ore.


L’agrodolce:  Miscela di 2 cucchiai di zucchero con ½ bicchiere di aceto (assaggiare per correggere l’equilibrio dei due elementi, secondo il proprio gusto).


Preparazione

Friggete il coniglio, tagliato a pezzi, lavato, asciugato con carta da cucina e infarinato, con una cipolla tritata finemente e salate e pepate. A questo punto, aggiungete il solo vino profumato della marinata e quando sarà evaporato, ricoprite con brodo, lasciando la pentola coperta a fuoco molto basso fino a quando si sarà formata una salsa densa. Quindi versate, sul coniglio, l’agrodolce, insieme ad un cucchiaio di uva passa e pinoli e rimettete sul fuoco per qualche minuto. Lasciare raffreddare e servire.

martedì 19 aprile 2016

La memoria, quel filo invisibile....

M’imbarco per Catania, triste e pensierosa, destinazione Paternò, per una visita alla tomba dei nonni e, nello stesso tempo, per controllare i lavori di manutenzione della stessa, affidati al marmista del paese.
Chiudo gli occhi, sperando di rilassarmi, ma nella mia mente si affollano pensieri e immagini della mia infanzia: La memoria, quel filo invisibile che ci lega al passato, sfuggita al mio controllo, mi riporta indietro col tempo e al rapporto con la persona più importante della mia vita, il nonno che, come in un filmino, rivedo in cucina, il giorno dei morti, insieme ai miei fratelli e mia madre,  mentre, come da consuetudine,  fa colazione “ca muffuletta cunsata” prima di accompagnarci al cimitero, per salutare i nostri morti e lasciare un fiore, dopo aver recitato una preghiera. 
E il ricordo, come una cinepresa, proietta l'immagine del mio “compagno di giochi” che, tenendomi per mano, sale la storica collina che porta al cimitero monumentale del paese, dove il panorama, mi sussurra all'orecchio, la fa da padrona:”Guarda la nostra ricchezza, dice, quella distesa di verde, i nostri agrumeti, e quelle pennellate di rosso, i tarocchi, che fanno della nostra terra, una miniera d’oro”. Quante sensazioni e quante emozioni, mi ritrovo davanti l’uscio, rivedo la figura del nonno che, come tutte le sere, verso il calar del sole, torna a casa, con il suo vecchio e fidato "ciuco",  carico di frutta e ortaggi; si, io aspetto il suo ritorno sempre con grande gioia e curiosità e lui lo sa e spesso si diverte ad osservare la mia delusione  quando mi comunica che non ha raccolto i fichi, da cui dipende la mia merenda,  delusione che diventa allegria e abbracci alla “mia roccia” quando, sorridendo, mi porge “u panareddu” pieno dei frutti attesi, poggiati delicatamente sulle foglie della pianta.
E le immagini si sostituiscono ad altre immagini: Mi ritrovo in campagna durante la raccolta delle olive, riprovando l’antica emozione: Le donne che, cadenzano i movimenti della raccolta, con il canto, e il mio nonnino che, dopo aver seguito i  miei sforzi, mi solleva perché possa raggiungere i rami più alti.
Si, il mio nonnino, la persona più importante, l’unica che, dopo cena, mi raccontava le storielle e mi parlava della terra e della sua ricchezza che permetteva alle famiglie di vivere con dignità, la persona che mi ha insegnato ad amare le piccole cose, a divertirmi “cu nienti", sfruttando l’immaginazione, come ripeteva spesso.
Improvvisamente, il brusco risveglio, il ritorno alla realtà , la voce del comandante che comunica l’arrivo all'aeroporto di Catania e io, serena, mi avvio all'uscita, felice, sapendo che, da lì a poco, avrei portato il mio affettuoso saluto, al mio compagno di vita.









lunedì 18 aprile 2016

Risotto all'arancia con scaglie di mandorle: la tradizione



“Risu finu ca mi isu”
Il riso mi sazia finché non mi alzo da tavola.

Il detto evidenzia come i siciliani non siano mai stati entusiasti di questo cibo come pietanza, certi che quando ci si alzava da tavola, purtroppo, si aveva di nuovo fame. Ciò non toglieva che il riso venisse utilizzato in molte ricette tradizionali come componente principale dei piatti unici, che costituiva un pasto completo.
Il " risotto all'arancia con scaglie di mandorle" è un piatto fresco e delicato che si contraddistingue per il suo sapore morbido e per il profumo intenso, dove gli ingredienti tipicamente siciliani, come arance e mandorle, rendono omaggio all’isola. E’ una ricetta particolare, la cui bontà è data dalla giusta armonia degli ingredienti, ben amalgamati tra loro.
Mia sorella, quando proponeva una cena tutta siciliana, inseriva spesso nel menu il risotto all’arancia e mandorle, una creazione insolita, lontana dai sapori a cui si è abituati che dava originalità alla cena e permetteva ai suoi ospiti un viaggio nel gusto e nelle tradizioni della nostra Sicilia.
Il risotto all’arancia e mandorle è un piatto per in ogni occasione.
Poiché la ricetta può essere ritenuta troppo lontana dal nostro gusto, conviene fare piccole porzioni, oppure come potete vedere dalla foto, riempire mezza arancia svuotata che permetta una porzione adeguata. Comunque l’unico modo per scoprire l’interesse e quello di prepararlo, gustarlo e, se piace, farlo apprezzare agli altri.

Il risotto all’arancia e scaglie di mandorle

Ingredienti
350 g. di riso carnaroli, il succo di 3 arance e relativa scorza sbollentata, senza la parte bianca e tagliata a filetti, 1 cipolla bianca tagliata a rondelle sottili, olio extravergine o burro, ½ bicchiere di vino bianco a temperatura ambiente, parmigiano, sale e pepe, brodo vegetale caldo e privo di sale, 40g. di lamelle di mandorle.

Preparazione
In una casseruola fate soffriggere la cipolla, tagliata a rondelle con dell’olio e tostate rapidamente il riso a fiamma alta, sfumando con il vino bianco. Non appena l’alcol sarà evaporato,  aggiungete un abbondante mestolo di brodo e una parte delle scorze di arancia, tagliate a striscioline sottili; proseguite la cottura, aggiungendo del brodo vegetale di tanto in tanto. Verso la fine, versate il succo di arance, aggiustare di sale e pepe bianco e spegnete il fuoco  dopo qualche minuto; quindi  mantecare con il parmigiano e noci di burro ( io preferisco l'olio extravergine) e preparare i piatti, guarnendoli con il resto delle scorze di arance e le lamelle di mandorle, pelate e tostate. Servire caldo


      
  





sabato 16 aprile 2016

A pasta cu niuru ri sicci

Anche se è un piatto catanese, la pasta con il nero di seppie entrò a casa dei nonni materni con l’arrivo di mio padre che amava il pesce e che si occupava anche di pulirlo e prepararlo.
Durante la preparazione, io gli ero sempre accanto, ascoltavo i consigli e imparavo: Mi ricordava sempre che, per una buona riuscita, erano determinanti la freschezza e il luogo di provenienza delle seppie ( quelle del mediterraneo sono superiori a quelle dell’atlantico perché vantano caratteristiche organolettiche e gustative superiori). Dopo che mio padre, perdonato per la scelta matrimoniale, solo lui naturalmente, e reintegrato dal padre nel posto di lavoro, si trasferirà nel “paesino” del palermitano, questo buon piatto sarà gustato, purtroppo, solo le poche volte in cui lui ritornerà a Paternò ( tre o quattro volte l’anno, legate alle scadenze festive).   La mia mamma, che apprezzava tanto questo piatto, decise che era giunto il momento di occuparsene personalmente.
 Il sugo al nero di seppie è un modo, una tecnica per cucinare questi molluschi che oltre ad essere un buon secondo, può servire per condire la pasta, preferita dai siciliani o il riso che troviamo quasi sempre nei ristoranti. 

A pasta cu niuru di sicci
Ingredienti
600 h. di seppie pulite, tagliate a strisce lunghe poco meno di 2 cm. e i ciuffini in modo da separarne i tentacoli; fiala di nero, salsa di pomodoro, cipolla a fette sottili, olio extravergine, vino bianco, prezzemolo, sale e pepe.

Preparazione
In una casseruola fare appassire la cipolla a fette sottili con olio extravergine, quindi aggiungere le seppie e soffriggere brevemente, irrorare di vino bianco e far evaporare quindi aggiungere la salsa di pomodoro, sale e pepe.
Cuocere a fuoco lento per circa una ventina di minuti (le seppie sono cotte quando infilando la forchetta non offrono alcuna resistenza). Aggiungere, verso la fine, la fiala di nero e lasciare cuocere per 2 m. al massimo in modo da mantenere il più possibile inalterato il sapore; correggere quindi di sale, se necessario, e aggiungere una spolverata di pepe nero e spegnere il fuoco.
Cuocere gli spaghetti al dente, scolarli e saltarli nella casseruola con l’intingolo di seppie, amalgamare  a fuoco vivo per qualche secondo. Servire decorando il piatto con foglioline di prezzemolo. 
                                   Qualche notizia sulle seppie e come pulirle
Le seppie migliori sono quelle pescate nel mediterraneo e quelle di media grandezza la cui carne è più tenera.

Se non siete in grado o non avete voglia di pulire le seppie, fatelo fare al pescivendolo, in caso contrario ricordate che, prima di accingervi alla pulitura è utile indossare i guanti , tipo quelli da chirurgo, per evitare di macchiarsi l’interno delle unghia.
Quindi lavare sommariamente la seppia sotto l’acqua corrente per togliere il nero esterno, che è indice di freschezza ( il mollusco lo espelle nella situazione di pericolo) e la sabbia.
Staccare la testa dal corpo che porterà con sé  la maggior parte degli intestini da eliminare come si farà con gli occhi; tirare con delicatezza il sacchetto con l’inchiostro e metterlo da parte ( se non volete utilizzarlo subito, congelate solo il liquido, il nero che se lasciato nel suo involucro, scongelandolo, risulterebbe granuloso).Dopo aver tolto il becco e l’osso, la conchiglia interna al mollusco, pelare la seppia, afferrandola per un lembo e tirando la pelle.

mercoledì 13 aprile 2016

Melanzane ripiene e la strana merenda


La melanzana ripiena è stata, spesso, la merenda della mia infanzia perché, come mi spiegava mia madre per invogliarmi a mangiarla, era una pietanza genuina e appetitosa che, accompagnata dal buon "pane di casa”, era anche nutriente. Anche le mie nipotine sono passate sotto le forche caudine della nonna che un giorno le ha invitate a preparare con loro una merenda particolare. Erano felici di collaborare alla preparazione di questo "strano" panino: Muniti di grembiulino da cucina e sistemate attorno al tavolo, facevano le cuoche, porgendo, alla nonna, i piatti  su cui erano stati già tagliati i vari ingredienti e mentre aspettavano che fosse tutto pronto, ascoltavano i racconti sulla loro  mamma bambina. Mangiarono questo strano panino con la melanzana ripiena, convinte di essere state le artefici di quel piatto. Tenera la mia mamma, pensava di essere ancora nel dopoguerra o nella cucina della madre.
Le “melanzane ripiene"sono soprattutto un ottimo secondo ma possono anche diventare stuzzichini, tagliati a pezzetti e serviti insieme all'aperitivo, e, perché no, anche un ottimo primo , se accompagnano una buona salsa di pomodoro.


Melanzane ripiene

Ingredienti
Melanzane, pomodori, caciocavallo, aglio, basilico, sale e pepe

2 Melanzane: eliminare i piccioli e tagliarle a metà nel senso della lunghezza, praticare 3-4 incisioni profonde, cospargere di sale e tenerle nello scolapasta per 1/2 h. Quindi sciacquare e asciugare con cura.
4 pomodori: togliere la pelle dopo averle sbollentate, eliminare i semi e tagliare a filetti.
100 g. di caciocavallo, tagliati a cubetti.
Tritare aglio con il basilico
Sale e pepe.
Salsa di pomodoro fresco (se si vuole condire la pasta, arricchita dalle melanzane farcite).

               

Preparazione

In una terrina, mescolare i filetti di pomodori,
i cubetti di caciocavallo, il trito di aglio e basilico, sale e pepe; costituito il ripieno, inserire nei tagli delle melanzane che saranno disposte in una teglia unta di olio e irrorate con un altro cucchiaio d’olio e messi ad infornare a 180° per ¾ d’ora. Servire le melanzane ben calde e se volete conservarle in frigo, massimo per due giorni, metterli in contenitori ermeticamente chiusi, e prima di tornare a servire, riscaldarle.


lunedì 11 aprile 2016

zuppa di ceci e vongole: binomio terra - mare



E la cucina siciliana vive felicemente, il binomio terra/ mare: Non vi è verdura che sposata al pesce non trovi esaltazione nella cucina isolana, difficilmente  riscontrabile altrove.
E mio padre, quando preparava questo piatto in tandem con mia madre, lei curava la cottura dei ceci lui la pulitura, l’apertura delle vongole e la preparazione, ricordava con stupore l’incontro con questo gradevole piatto, a casa della zia paternese che aveva voluto stupirlo affettuosamente, conoscendo il suo apprezzamento per il pesce. 
E lui, ogni qualvolta mangiavamo la zuppa, ci ricordava l’originalità della ricetta, dal sapore unico e speciale; i due piatti diceva, di solito gustati singolarmente, si sposavano perfettamente, dando origine ad una pietanza semplice da cucinare e soprattutto saporita e salutare.
La zuppa di ceci e vongole può essere cucinata più saporita o meno, più brodosa o più densa secondo le preferenze; inoltre si può fare uso della passata di pomodoro o fare una minestra bianca, in entrambi i casi i ceci e le vongole creano una combinazione perfetta.
Mio padre, nel cucinare questo piatto, le aveva dato una “aggiustatina”,  così diceva, sostituendo il rosmarino con il finocchietto selvatico.
 Molto buona, chi sa se la ricetta piacerà anche a voi, ve la descrivo.
 Per fare la  zuppa di ceci e vongole ci vogliono: vongole, ceci, aglio, peperoncino, vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, cipolla, peperoncino, finocchietto selvatico, pomodoro di Pachino, sale.
Preparazione
 Ceci: Cuocere i ceci, precedentemente,  tenuti in acqua per 12 ore, in acqua con cipolla,gemme del finocchietto, tagliuzzato  e qualche pomodoro di Pachino e salare verso la fine. Appena cotti, conservarne la metà e frullare il rimanente.
Vongole: Dopo averle spurgate, metterle in padella con un cucchiaio d’olio extravergine e due spicchi d'aglio e due rotelline di peperoncino fresco. Spruzzare del vino bianco secco, ancora meglio se è dell'Etna e, una volta che si sono aperte tutte le vongole,  lasciare in padella ancora 1/2 minuto perché nel giro di poco, il calore le farà aprire tutte e a questo punto estrarle dalle valve ( lasciarne alcune con i gusci per ornare i piatti) e filtrare il liquido, rilasciato in fase di cottura, per eliminare i possibili residui.
Fase conclusiva
In un tegame con dell’olio, mettere uno spicchio d’aglio, da eliminare quasi subito, e se vi
piace il peperoncino, quindi versare la crema e la parte intera di ceci e il liquido dei molluschi, messo da parte, controllare di sale continuare la cottura, a fuoco medio per 20 minuti, coprendo con il coperchio finché la zuppa non avrà raggiunto una buona consistenza, aggiungete poi un filo d’olio. Spegnere il fuoco e completare con l’aggiunta delle vongole sgusciate e un filo d’olio extravergine d’oliva che si insaporiranno il contenuto.
Far riposare per 10 minuti e servire, decorando i piatti con le vongole con i gusci, messe da parte.

Avvertenze
 Come pulire le vongole
Vongole, Cibo, Mangiare, PotenzaRiempite un contenitore, capiente, di acqua fresca con l’aggiunta di un cucchiaio di sale grosso per ogni litro, per ricreare l’ambiente salino congeniale alle vongole che vi immergerete. Si ricorda di scartare quelle già aperte e rotte perché sono già morte. Lasciare in acqua per 4/6 ore, avendo cura di smuoverle di tanto in tanto e di cambiare la miscela di acqua e sale ogni due ore ( per il cambio dell’acqua, portare fuori le vongole con le mani o con la paletta per evitare che la sabbia depositata sul fondo la si ritrovi sui molluschi). Se anche dopo, le vongole continuano a tirare fuori molta sabbia, è bene batterle leggermente, una ad una, dalla parte della fessura, su un piano di lavoro o un tagliere. Sono da evitare le cotture lunghe perché le carni di questo mollusco si potrebbe indurire diventando gommose; è fondamentale che le vongole vengano consumate subito dopo l’acquisto
( nel frigorifero possono essere conservate solo 1 giorno, avvolte in un panno umido e già pulite).


giovedì 7 aprile 2016

La bontà della caponata? L'estro di chi la cucina!



Ormai ero un’esperta! Dell’orto sapevo tutto, avevo costretto, tante volte, il nonno a fermarsi e spiegarmi le varietà degli ortaggi a insegnarmi come tagliare il peduncolo dei peperoni e delle melanzane e di quest’ultima sapevo anche la qualità da scegliere, a seconda della ricetta. "E si,se vuoi fare le cotolette di melanzane, diceva, scegli quelle grandi, rotonde, lilla chiaro, che sono le più dolci, quelle che noi chiamiamo tunisine, se invece vuoi friggerle a fette, da mettere sulla pasta col pomodoro fresco, scegli le viola lunghe e dolci  ma se vuoi preparare la caponata non puoi non scegliere quelle con la pelle scurissima, lucida e con la polpa resistente, compatta che rimane integra anche dopo la doppia cottura e amarissima, l’amaro si combina bene con l’agrodolce, e poi non assorbe l’olio di frittura". 
Incredula gli chiesi se lo avesse saputo dalla nonna e lui, sorridendo, rispose: "Ma no, che uomo della terra sarei, se non conoscessi le caratteristiche delle piante e dei prodotti dell’orto; la caponata, per esempio, avendo alcuni ingredienti dolci come le patate, il sedano e la  stessa cipolla, deve essere equilibrata, nei sapori,  e la melanzana amarognola è quella giusta".
La nostra caponata, infatti, è corposa, ha tanti ingredienti: Melanzane, peperoni gialli e rossi, patate, cipolla, sedano capperi, olive e, qualche volta, anche l’aglio, tutto in agrodolce. E noi ragazzi, soprattutto mia sorella Agnese a cui non piacevano i peperoni, non la mangiavamo volentieri, abbiamo capito, molto tempo dopo,  che i gusti e gli odori, nel sovrapporsi, perdevano la loro caratteristica e che i tanti ingredienti, insieme molto pesanti, avessero lo scopo di sfamare  più che farsi gustare.
A Palermo, scoprimmo un’altra caponata!
Eravamo arrivati da qualche giorno, nella nuova casa e l’invito, a cena, della zia Mariuccia arrivò inaspettata ma provvidenziale e avremmo apprezzato, più tardi, la sua generosa, disponibilità e soprattutto l’umanità; tanti i piatti, per noi una sorpresa, e tutti molto buoni come lo sfincione di carciofi, con un gusto eccellente, e anche la caponata che, ultima portata di antipasti, fu una scoperta. Era una versione semplice e con pochi ingredienti: Melanzane fritte ma tagliate a tocchi grandi, olive intere schiacciate e senza osso, e il pensiero al mio nonnino si fece subito largo, nella mia mente, tocchetti di sedano ben visibili, capperi e l’agrodolce. Mia madre fece i complimenti alla zia per la splendida serata e l’ottima cena e  poi si soffermò sulla ricetta della caponata locale: Hai visto ,Mariuccia, come i ragazzi hanno gustato volentieri la tua caponata, facendo addirittura il bis, posso chiederti, gentilmente, qual è il segreto  di questo piatto? La zia, avremmo scoperto, col tempo quanto fosse affettuosa, amabile, disponibile e generosa, fu estremamente sincera: La bontà di questo piatto? Si deve all'estro di chi la cucina e anche alla giornata: Versioni diverse le trova nella stessa famiglia, nello stesso paese  e nella stessa provincia. Deve prenderci la mano e ricordarti che nessuna caponata è mai uguale alla precedente o alla successiva:L’importante  è l’equilibrio tra lo zucchero e l’aceto, non troppo dolciastro né troppo “acitusu”(acidulo), una formula che ogni massaia custodisce gelosamente e che crea un equilibrio tra i contrasti. E della lezione mia madre ne fece tesoro e creò la sua caponata che, ancora oggi, è la caponata di casa Lombardo, aveva avuto una buona maestra che le insegnò tante altre ricette palermitane; la zia Mariuccia era adorabile, anticonformista, in una terra dove il posto della donna era ben definito, e felice del bene altrui, per noi è stata una seconda mamma, come a Paternò lo era stata zia Nunzia.  La zia del cuore, così la chiamavamo, insegnava nel paesino dove vivevamo e quindi spesso, prima di andare a scuola, faceva la sosta a casa per prendere un caffè e fare due chiacchiere che rileveranno la sintonia tra loro: Zia Mariuccia, donna libera, prorompente nella sua voglia di emergere nel lavoro e nella vita e mia madre femminista, combattiva, per conquistare il suo spazio di donna, si ritroveranno in una comunione di intenti e di affetti. Era proprio un personaggio, la zia del cuore, riusciva a rendere leggera e piacevole qualsiasi conversazione e soprattutto era l'amica più cara di tutti i nipoti, quanto ci manca!       


La caponata conosce molte varianti ma la più antica prevede "gallette da marinaio, capperi salati, olive verdi, acciughe salate, fletti di tonno salato, olio d'oliva, aceto, miele e sale"; si diceva, infatti, fosse il piatto dei marinai che ammorbidivano le due gallette, che definivano capponi di galera, il nome era nato nella caupone, termine con il quale, la bassa latinità, designava la taverna.
.



Caponata alla palermitana

Ingredienti
4 melanzane,  300 g. di pomodori, 2 cipolle tagliate a rondelle, 1 cuore di sedano, 100 g. di olive verdi, schiacciate, 2 cucchiai di capperi dissalati, sale, pepe e olio extravergine d’oliva.
Salsa in agrodolce: miscela di 1/2 bicchiere di aceto bianco e 2 cucchiai di zucchero (assaggiando, correggere l’equilibrio dei due elementi, secondo il proprio gusto).
Tagliare a tocchetti grandi le melanzane, farle spurgare in acqua e sale per ½ h,  lavarle più volte e strizzarle bene,quindi friggerle in padella con olio extravergine  d’oliva e farli asciugare sulla carta da cucina.
Bollire il cuore del sedano, tagliato a pezzetti.

Preparazione
In un tegame abbastanza grande, far soffriggere la cipolla e cuocervi il pomodoro per circa 10 minuti circa quindi aggiungere, le melanzane  fritte precedentemente, le olive, i capperi e il sedano fritto ( io lo preferisco sbollentato, perché è meno pesante), lasciare insaporire per qualche minuto e irrorare il tutto con la salsa in agrodolce. Spegnere il fuoco e far raffreddare la caponata in modo che i componenti si possano amalgamare.


 L’origine del termine “caponata”
Sembra che abbia avuto origine dalla parola “capone”, il nome con cui viene chiamata la lampuga, in alcune zone della Sicilia, pesce pregiato che una volta veniva servito alle tavole dell’aristocrazia con la salsa agrodolce, tipica della caponata; altri affermano che il nome ci sia stato tramandato dai soliti “monsù” che usavano la salsa per conservare per poco tempo la cacciagione, fra cui il cappone, ingrediente che definiva quelle preparazioni capponate.

mercoledì 6 aprile 2016

La mia terra: amore e rabbia

La finalità del blog  è molto più profonda di quanto pensassi: Non solo la conoscenza, attraverso la storia della mia famiglia, della mia terra, la Sicilia, delle sue tradizioni e della sua straordinaria cucina.
Non sono una cuoca ma un’insegnante in pensione che vuole presentare, attraverso le ricette, la sua isola, terra che continua ad emozionarla ma anche indignarla: Terra del sole, dei dialetti, della famiglia, dei fichi d'india, di città eleganti e di uomini come Falcone e Borsellino che rappresentano il meglio di questa isola, ma anche di degrado, illegalità, omertà e arroganza.
La mia vita è stata attraversata anche da momenti difficili  nel paesino mafioso del palermitano dove mio padre, catapultato dall'isola di Favignana con la sua famiglia per il trasferimento del nonno, dirigente di un ufficio postale, che aveva rifiutato la tessera del fascio, denunciava pubblicamente collusioni e ............Quella cruda realtà, e l'impotenza, mi hanno costretta a prendere la valigia e trasferirmi nella città in cui vivo, che ho adottato e che amo profondamente e dove ho potuto, attraverso l’insegnamento, continuare la mia battaglia: Infondere, nei giovani,  gli ideali di legalità, onestà, uguaglianza e la speranza di ritrovare un "paese dignitoso".

martedì 5 aprile 2016

Vruocculi o bastardi arriminati? Lo stesso piatto ma ......!

L’odore caratteristico del broccolo, cucinato dalla vicina di casa, eravamo arrivati nel palermitano da qualche tempo, aveva invaso il nostro appartamento, costringendoci a tenere chiuse, le imposte. Fuori stagione! Non era possibile, ripeteva mia madre, era risaputo che i broccoli, quelli che nelle altre parti d’Italia si chiamano cavolfiori, non si mangiano in questa stagione, il suo periodo naturale è da ottobre a febbraio, ce lo aveva insegnato nonno Nino, e lo confermava anche il detto delle donne palermitane” vuliti fari muriri vostru maritu? Daticci a manciari i vroucculi nta stati” e, qualche tempo dopo, avevo scoperto che anche Plinio raccomandava “saggio è nutrirsi di cavoli domestici, e i migliori sono quelli che la terra produce dopo le prime piogge”. Ma quello che, mia madre, non riusciva a capire era perché, com'è d’uso, la vicina non avesse preso precauzioni per eliminare l’odore fastidioso che emana l’ortaggio, quell’odore sgradevole, “ u fetu” come lo chiamano i palermitani, con i tanti modi che le donne siciliane conoscono, mia madre  posizionava sul coperchio della pentola, in corrispondenza dell’uscita del vapore, un pezzo di pane raffermo, imbevuto di aceto, che assorbiva l’odore e funzionava!
E pensare che con i broccoli si preparano degli antipasti sfiziosi e anche il condimento per degli ottimi primi come “a pasta chi vruocculi arriminati” ( la pasta con i broccoli mescolati), broccoli insaporiti e aromatizzati dalla cipolla e dai pinoli, che addolciscono,  dall'acidulo dell'uva di Corinto, dallo zafferano che colora e profuma e, dulcis in fundo, dalle sarde salate che rendono il piatto forte e gustoso. Ma le versioni di questo piatto sono molte: “’Mpruvulazzata”, cioè cosparsa di pangrattato abbrustolito, (a muddica atturrata), “a minestra”, con i bucatini e il broccolo verde a Palermo,“chi maccaruneddi e u bastardu viola dell’Etna, com'è chiamato il cavolfiore, a Catania, che ha un sapore particolarmente gustoso e ancora con il formaggio, con il pomodoro che sostituisce lo zafferano. Che confusione di ingredienti, di sapori, chiesi  a mia madre di spiegarmi a cosa fosse dovuto, e lei di rimando “ la ricetta, col tempo, è diventata molto personale, le variazioni corrono di porta in porta, di balcone in balcone, di bocca in bocca, insomma è una cucina di curtugghiu”, di cortile o di viuzze.”
E, quindi, la ricetta della “ pasta chi vruocculi arrimiminati”, che vi presenterò, è quella della famiglia, un mix tra il catanese, il palermitano e le scelte personali di mia madre, un gusto inimitabile, speziato, dolce e salato nello stesso tempo, come nelle migliori tradizioni siciliane.




"Pasta cu vruocculu o bastardu arriminati"

Ingredienti
Un vruocculu o bastardu ( cavolfiore); una cipolla a rondelle, 3 filetti di acciughe salate, un cucchiaio di salsa, pecorino o parmigiano a scaglie, olio extravergine d’oliva, pinoli tostati in padella, uva di Corinto, ammollata nell'acqua tiepida, sale e pepe. pangrattato tostato in padella con un filo d’olio (muddica atturrata).
Pasta: bucatini o cavatuna (maccheroni) o maccaruneddi rigati

Preparazione
Cuocere il broccolo, ridotto a cimette, in acqua salata che conserverete, per la cottura della pasta.
Condimento: In un tegame capiente, con olio abbondante, soffriggere la cipolla, sciogliere i filetti di acciughe, aggiungere un cucchiaio di salsa, quindi i pinoli, l’uva di Corinto e alla fine le cimette sbollentate, pepare e salare, assaggiando; lasciare insaporire tutti gli ingredienti, aggiungendo, se necessario, un po’ di acqua di cottura del broccolo, alla fine aggiungere le scaglie di formaggio e dare l'ultima "arriminata".
Cuocere la pasta nell'acqua dove è stato bollito  il broccolo, scolarla e versarla "na pignata e "arriminarla"( girarla) perché si amalgami con il condimento e diventi maccusa, cioè cremosa. 
Quindi servire, dopo averla arricchita con una spolverata di muddica atturrata.

Qualche notizia

Il modo migliore per mantenere tutte le proprietà nutrizionali del broccolo è la cottura stufata o a vapore.
I modi per eliminare l’odore sgradevole, dovuto allo zolfo, emanato durante la cottura del cavolfiore, sono tanti: Aggiungere all'acqua alcune foglie di alloro o spremervi un limone o posizionare una tazzina con dell'aceto o un pezzo di pane raffermo, bagnato nell'aceto, sul coperchio della pentola, in corrispondenza dell’uscita del vapore.