lunedì 23 maggio 2016

L'esploratrice e il palazzo dei misteri



Il paese, che ci ospitava, era costituito solo da una grande via, chiamata “lo stradone”, divisa a metà dalla piazza su cui si affacciavano delle botteghe di artigiani, la tabaccheria, un cinema, e l’ufficio postale. Essa partiva dalla periferia, una zona aperta e, attraversando il paese, con la scuola elementare, la chiesa madre, il municipio e l'istituto di agraria, proseguiva verso i paesi limitrofi. Era un piccolo paese con economia agricola, tanti  braccianti, le figure di rito come il parroco, il maresciallo dei carabinieri, il medico condotto e il “padrino” di turno. Abitavamo da qualche mese vicino alla piazza, quando mio padre ci comunicava che ci saremmo trasferiti in periferia, una palazzina di nuova costruzione di pochi appartamenti, sita al centro di un grande spazio aperto, con alle spalle un agrumeto che emanava fragranza di zagara, la cava di pietra a sinistra  e, più avanti, il casello ferroviario con la piccola costruzione rossa, le cui finestre erano adornate da piante di gerani e di  fronte il mercato all'ingrosso di frutta e verdura, seguito da una grande tenuta con uno splendido palazzo ottocentesco, purtroppo in degrado, ma immerso nel verde con agrumeto e piante da frutta. Com'erano buone quelle nespole! Quanto ho amato quel luogo e quanto tempo ho dedicato alla sua esplorazione: Si partiva, in gruppo, in spedizione e io ero il maschiaccio in gonnella che si misurava sulla “l’arrampicata” del grande albero di nespolo, che catturava scarafaggi, mostrandoli come un trofeo, nel barattolo di vetro e che entrava, per prima, nel vecchio palazzo fatiscente, alla ricerca del tesoro. Ero definita "la temeraria" da mia madre, da quando ne era venuta a conoscenza.
E andavo, spesso, nella tenuta, a cimentarmi con la paura, accompagnata solo dal mio fido Apollo, il mio pastore tedesco, che mio padre mi aveva regalato, forse pensando che avessi bisogno di protezione. E’ stato il mio compagno di giochi ma anche il protettore di tutti noi fratelli soprattutto  quando mia madre minacciava gli schiaffi, per le nostre malefatte: Apollo tentava, con le zampe anteriori, di bloccarle le braccia, spesso graffiandola, ma si faceva perdonare con il suo affetto. In questo paese, abbiamo dovuto imparare tante cose e superare tante difficoltà: La comprensione di molte parole del dialetto palermitano, le abitudini, gli atteggiamenti dei paesani che ci chiamavano “chiddi di fora”, ma soprattutto confrontarci con la loro cucina; spesso veniva a trovarci “A mantellina”, in quel paese tutti avevano un soprannome, la signora del piano terra che, un giorno, vedendo mia madre pulire le foglie dei "taddi" (1) così li chiamavano nel catanese, le foglie di una pianta rampicante con la zucchina lunga per preparare la minestra, le disse, dopo aver conosciuto la nostra ricetta di famiglia, che quella dei palermitani, che li chiamavano tenerumi, (2) era ben diversa e mia madre, che aveva colto la sua curiosità, aveva spiegato che era facile trovare, in molte zone della Sicilia, ricette diverse: Chi preparava i taddi/tenerumi in bianco (senza il pomodoro a picchio pacchio), chi con cipolla,  chi con il pomodoro e la zucchina lunga, chi con patate a tocchetti; e ancora chi li mangiava con gli spaghetti e chi con la margherita ( pasta lunga arricciata ai lati), rigorosamente spezzettati e anche fredda. La minestra, con questa verdura, è, al di là delle diverse ricette, un piatto molto nutriente, ricco di fibre, minerali e vitamine; ha diverse proprietà benefiche e aiutano il sistema digerente.   .

Minestra di tinnirumi/ taddi e zucchina lunga con pasta spezzata

Ingredienti
Spaghetti spezzati ( 50 g. a persona)
4 mazzi di tinnirumi: si scelgono le foglie più tenere e i germogli: lavateli  parecchie volte per togliere la terra fino a quando l’acqua non sarà pulita, quindi scolateli e sminuzzateli
½ Zucchina: pelatela e tagliatela a pezzetti
4 Pomodori, 1 spicchio d’aglio, olio extravergine, sale
Parmigiano a pezzetti e un pizzico di pepe 

Preparazione
Salsa:  mettete in padella 4 pomodori pelati e senza semi, tagliati a pezzi e schiacciati con la forchetta, aggiungete uno spicchio d’aglio, olio, sale e fate cuocere in padella per 5 minuti, quindi eliminate l’aglio.
Tinnirumi: In una pentola far bollire un litro d’acqua,aggiungere gli zucchini e i tenerumi sminuzzati, mescolare, salare e lasciarli cuocere, quindi aggiungere gli spaghetti spezzata. Quando la pasta sarà quasi cotta, aggiungere la salsa di pomodoro e pezzetti di parmigiano con il pepe, a cottura finita, versare nei piatti, con un filo d'olio. Gustatela!

Qualche notizia in più
La zucca della lagenaria longissima, dal colore verde chiarissimo, è possibile gustarla soltanto in estate; ha una forma cilindrica e molto lunga che può arrivare fino a 2 metri ma è opportuno mangiarla prima che diventi legnosa, quando raggiunge i 25 cm. In Italia è coltivata soprattutto in Sicilia ( io trovo i tenerumi e la zucca al mercato coperto dei contadini di Porta Palazzo, a Torino), le foglie di queste zucche, che hanno proprietà rinfrescanti e diuretiche, danno una minestra molto buona. Come ho già detto, sono tante le versioni di una stessa ricetta in Sicilia e anche per questa minestra abbiamo una versione catanese, che si traduce in un’ottima minestra, ed una palermitana, asciutta. Vi consiglio di assaggiarle entrambi, oltre ad essere gustose, sono anche curativa, una vera bontà!

(1) Taddi, termine dialettale catanese; trasformazione della parola greca tallj che significa germogli,
 ( trasformazione della doppia L in doppia D);
(2) il termine tenerumi non ha un vero e proprio corrispondente nella lingua italiana, per assonanza e per significato, si può associare al nome di tenerezze, infatti al tatto queste foglie sono molto morbide.

venerdì 20 maggio 2016

D'Artagnan, i tre moschettieri e le conchiglie all'ortolana



Ero la piccola di casa, ammiravo i miei tre fratelli e volevo essere come loro, li imitavo e li importunavo ripetevano, perché chiedevo di partecipare ai loro giochi. Anche se, come diceva mia madre, eravamo simili, in effetti erano molte le differenze fisiche e caratteriali: Agnese e Gaetano, eredità normanna, da piccoli erano biondissimi, occhi verdi e longilinei; la biondina, così chiamavamo mia sorella, responsabile, per la sua giovanissima età, di carattere deciso ma vezzosa perché molto coccolata dai nonni e dalle zie, era la prima nipotina; Gaetano era il bello di casa e il più giocherellone. Antonio e la sottoscritta, più svevi, eravamo bruni, occhi castani e non molto alti: Il mio fratellone era di carattere tranquillo, un po’ spigoloso ma molto affettuoso ed io, tenera e carina, "non bella" come mia sorella, giudizio che mi ha accompagnato tutta la vita, ero la guascona, il D’Artagnan, accettata dai tre moschettieri, per stanchezza. Abitavamo, a Paternò, in una piccola via che poteva considerarsi un paesino in miniatura: Poche case, a due piani, il fornaio, la bottega di generi alimentari, la piazzetta, l’ortolano e il lavoratore di marmi, si conoscevano tutti. Questo permetteva alle famiglie di essere tranquille nel lasciare giocare i loro figli in strada ed era quello che avveniva per molti bambini. Purtroppo non sempre per noi, mia madre non permetteva a noi bimbe di giocare in strada mentre era più permissiva con i maschi: Antonio e Gaetano andavano in giro, per il paese, con gli amichetti a fare la guerra e  capitava spesso che mia madre venisse chiamata perché  ne avevano combinata una delle loro come quando mio fratello  Gaetano, per salvare il fratello, che era stato catturato in battaglia, aveva legato ad un albero il nemico, un povero ragazzino, e si rifiutava di liberarlo. E quante volte ho invidiato i bambini che giocavano in strada scalzi: Che libertà! Alla mia richiesta, mia madre rispondeva, dandomi motivazioni sociali ma soprattutto igieniche, e mi invitava a trascorrere il tempo disegnando, cioè scarabocchiando. Il rapporto tra i due fratelli maggiori era difficile, litigavano spesso, e a turno rivendicavano il diritto di ruolo, la prima perché era la più grande il secondo perché era il maschietto di casa e capitava molto spesso che, oltre alla dialettica, tentassero di sopraffarsi ed ecco intervenire mia madre, che vigilava affettuosamente; purtroppo la diatriba non è mai finita, ancora da adulti e genitori, continuavano a rivendicare questo diritto, in modo vivace.
 Il bel tempo ci permetteva di  trascorrere le giornate, in campagna, proprietà del nonno, dove,  stranamente, riuscivamo ad essere complici. Si, i tre moschettieri, come chiamavo i miei fratelli, riuscivano a diventare “uno per tutti e tutti per uno”, insieme alla rompiscatole, come mi definivano. Quel luogo, espressione della natura con gli alberi di agrumi, da frutta, l’orto con i suoi colori, il bruno della terra che si alternava al verde delle più svariate colture, gli odori e a poca distanza, l’acqua rossa ferrosa che sgorgava spontanea da una roccia e della quale si diceva fosse curativa, gli uccelli e i tanti animali che noncuranti continuavano la loro vita, ma soprattutto il senso di libertà che quello spazio sconfinato  dava, ci rendeva felici. Durante la giornata ci si sparpagliava per la campagna, mia sorella si dedicava alla lettura, i miei fratelli andavano alla ricerca di animali feroci, così dicevano, cercando di spaventarmi perché non li seguissi e noi, io e la mia mamma, andavamo a raccogliere la frutta che a me piaceva tanto, a merenda. Ma il gruppo si consolidava alla richiesta di mia madre di raccogliere, i piselli e le fave nell’orto, e noi ne mangiavamo tanti durante la raccolta, per preparare: “Le conchiglie all'ortolana”, così mia madre chiamava il piatto (quando andavamo in campagna si mangiava, per praticità, “la scacciata” e il primo si spostava alla sera). E’ una ricetta povera e semplice e decisamente gustosa e saporita, appartiene alla sapienza della campagna e col tempo è entrata anche nella cucina, cosiddetta colta. E’ di facile preparazione, e per chi ha poco tempo, è il piatto giusto, figlio di quella terra che regala dolcezza e bontà. Provateci!
E per me, è una ricetta della memoria e dei ricordi dell’infanzia: Ogni volta che preparo questo piatto e lo faccio spesso, mi ritrovo in campagna con i miei fratelli, i due normanni li ho persi troppo presto, e la mia mamma che con pazienza mi aiutava a raccogliere la frutta, per la mia merenda.


Conchiglie all'ortolana (fave e piselli)

Ingredienti    per 4 persone
½ kg di pasta ( a me piacciono le conchiglie perché si riempiono di fave e piselli)
1 kg di Piselli, 1 kg di fave, 2 cipolle tagliate a rondelle, foglie di basilico, olio extravergine d’oliva, sale e pepe

Preparazione
Dopo aver versato in un tegame, con abbondante olio, le cipolle tagliate sottili, i piselli, le fave, sale e pepe, far rosolare per circa 3 minuti, quindi aggiungere mezzo bicchiere d’acqua e far cuocere a fuoco moderato, coprendo con il coperchio, prima di spegnere aggiungere qualche foglia di basilico.
Cuocere le conchiglie e scolarle al dente, conservando un po’ di acqua di cottura; versare la pasta nel tegame, tenendo la fiamma accesa, e mescolare con il condimento, aggiungendo un po’ di quell’acqua, messa da parte, se risultasse asciutta.
Servite, aggiungendo, se volete, del formaggio; io non lo aggiungo, preferisco che prevalgano i gusti degli ortaggi.


martedì 17 maggio 2016

Mia madre , femminilità ed emancipazione



Mia madre sosteneva di essere nata in un periodo sbagliato, epoca in cui la donna, subordinata prima alla famiglia e poi al marito, era offesa nella sua dignità. Era la piccola di nove fratelli e questa posizione, sotto certi aspetti, le permetteva di trasgredire a qualche regola. Raccontava, spesso, come già da bambina riusciva a coinvolgere i fratelli, in particolare Giuseppe, il più vecchio, ad essere sua complice e come, da adolescente, ha continuato a chiedere la sua intercessione presso i genitori, per decidere della sua vita. Con grande fatica era riuscita, dopo il periodo scolastico, ad evitare di trascorrere le giornate ricamando, cosa che sapeva fare benissimo e che faceva solo quando doveva rendere più elegante un vestito: Le sorelle sceglievano le tele e i lini per cucire e ricamare la famosa dote, lei preferiva le stoffe preziose che, confezionate con grande cura, sfoggiava, con femminilità. Si, mia madre era una donna elegante, raffinata e colta: Amava la lettura, il cinema ma soprattutto il teatro che, da quando mio padre era tornato nel palermitano, richiamato dal padre perché reintegrato al lavoro,  poteva frequentava solo in paese, accompagnata da noi figli, naturalmente, con il dissenso totale dei genitori che ritenevano scandaloso da parte di una donna sposata, uscire senza il marito.
Io ricordo quando, in teatro, mia madre ci disponeva, tatticamente, due alla sua destra e due alla sua sinistra, per evitare che qualche maleducato la potesse infastidire, convinto di averne il diritto perché il detto paesano era: ”A fimmina onesta un nesci sula; u postu ra fimmina è a casa, chi figghi e na cucina”. E lei, anche se con molte difficoltà, cercava di vivere la sua vita, insieme a noi figli, scontrandosi sempre con i nonni, per le sue scelte e i suoi comportamenti. Altro ricordo indelebile, lo scontro inevitabile con il padre, il 2 giugno 1946, giorno del referendum sulla monarchia: il paesino era in agitazione ma ancora di più nonno Nino che continuava a ripetere ai figli che si doveva votare per Vittorio Emanuele, suo coscritto e fratello. Non si era fatta intimidire e con orgoglio aveva affrontato lo scontro titanico confermando, attraverso quel voto, il rifiuto di quei valori imposti, quel modello di vita che da anni aveva messo in discussione ponendosi, con lucidità, contro una vita di subordinazione e di staticità.

Aveva sperato che quel simbolo, quel segno, una crocetta avrebbe cambiato la storia delle donne e così fu! E lei, madre e donna, si espresse in modo prorompente sempre anche scandalizzando. Sorridendo, spesso ricordava quando non avendo potuto indossare le calze di seta con la riga che gli americani avevano distribuito al loro passaggio, era uscita di casa, senza calze, dopo aver tracciato una riga sulle gambe nude, con il carbone, creando lo scompiglio in famiglia. Era una continua battaglia! Aveva capito l'importanza del lavoro che le avrebbe potuto permettere l'autonomia da mio padre e dai miei nonni che ci ospitavano e che supportandoci, pretendevano; si fermava, spesso,  a riflettere sul rapporto uomo - donna. A me e a mia sorella Agnese ripeteva sempre  "Dovete studiare e rendervi libere, questo vi permetterà di fare scelte attente e rispettose dei vostri interessi e di stabilire un rapporto paritetico con il marito a cui non dovete perdonare scorrettezze e offese gratuite". Ho capito a distanza di tempo quanto avesse sofferto il comportamento di mio padre e l’atteggiamento ostile  del vecchio Marx, di cui aveva cercato di capirne la personalità. E il tempo le aveva dato ragione, arrivata nel paesino del palermitano, lei, donna sicura di sé, tenace e perseverante, dimostrerà al suocero che l'accusa di avere irretito il figlio, era falsa, tanto da spingerlo a chiederle scusa. Nel palermitano la accompagnarono le sue radici, la sua cultura e la sua cucina che il vecchio Marx apprezzava molto e che lei, con piacere, gli faceva gustare, invitandolo spesso, ad un pranzo tutto catanese, che iniziava, sempre, con la rituale “ focaccia alle verdure”, una pizza buona, gustosa e leggera. Vi invito a prepararla perché, oltre ad essere buona e genuina, è di facile preparazione.


Focaccia alle verdure

Ingredienti
400 g. Pasta lievita ( se non avete tempo, compratela dal vostro fornaio di fiducia), 2 zucchine tagliate a bastoncini, 1 peperone tagliato a pezzetti, 2 pomodori a pezzi da aggiungere a mezza cottura, 1 cipolla a fettine, 2 cucchiai di olio extravergine, origano fresco, sale e pepe.

Preparazione
La pasta: Stendete la pasta nella teglia e allargatela con le mani, per darle la stessa forma del recipiente.
Il condimento: In una casseruola cuocete la cipolla con mezzo bicchiere di acqua, quando sarà evaporata, aggiungete zucchine, peperone, olio extravergine, olive, sale e pepe. Mescolate per qualche minuto e poi
distribuite le verdure sulla pasta, già preparata nella teglia. Cuocete la focaccia in forno, preventivamente riscaldato alla temperatura di 200°,  per 30 minuti. A metà cottura, aggiungete i pomodori e le foglie di origano. E' proprio buona!

lunedì 16 maggio 2016

Mio padre, l'eterno idealista



Non è facile parlare o presentare il proprio padre, soprattutto se è una figura poliedrica, camaleontica, sempre alla ricerca di se stesso, come il mio. Ho cominciato a recuperare la sua immagine solo dopo la sua morte, avvenuta improvvisamente, all'età di quarantanove anni. Qualche notizia, sulla personalità, l’avevamo avuta attraverso i rimproveri che mia madre rivolgeva a noi figli quando ci comportavamo, secondo lei, come mio padre. “ Non è possibile, diceva, siete simili a vostro padre, fiduciosi degli altri senza freno, disponibili a prescindere, generosi fino agli eccessi". E vero, mio padre aveva questi e tanti altri difetti, come la solarità, la voglia di vivere, l’espansività e l’altruismo che lo portava ad agire istintivamente. Tanti gli episodi che affiorano alla mia mente: Il vecchio lustrascarpe che, di regola passava tutte le mattine a spazzolare e lucidare le scarpe, per qualche spicciolo, e che non si vedeva da giorni. Mio padre, preoccupato, lo cercò e lo trovò ( c'ero anch'io) febbricitante nella baracca di lamiera, "Vai a chiamare il dottore, mi disse, e il medico del paese, sempre disponibile e umano, arrivò di corsa e di corsa io andai in farmacia con la ricetta e di corsa mia madre preparò il primo dei tanti brodini, insomma tutta la famiglia fu mobilitata. E grande era l'attenzione per i braccianti: Li aspettava, ogni inizio mese, in ufficio dopo l’orario di chiusura, per permettere loro di riscuotere l’indennità dello Stato, credo si chiamasse così, senza perdere la giornata di lavoro, mettendo in allerta, loro malgrado, le forze dell’ordine. Aveva un forte senso dello Stato e della legalità, che lo porterà, spesso, a scontrarsi pubblicamente con i boss del momento, compagni di bisbocce giovanili. Li attaccava frontalmente e in pubblico, li metteva in ridico anche dal palco, durante i comizi per le elezioni, e li accomunava alla DC che riteneva responsabile del degrado morale e civile della Sicilia. E un giorno la risposta arrivò “Dirittù, su scurdò, l’aspettanu pi mangiare, n campagna”! Era una domenica e come sempre, io accompagnavo mio padre in pasticceria per comprare il solito vassoio di cannoli; dopo un attimo di esitazione, l’altro gli aveva ricordato anche di dimostrare di essere “masculu”, lo seguì dopo avermi invitato a tornare a casa e pregandomi di comunicare a mia madre l’accaduto. Ritornato verso sera, bagnato fradicio, ci raccontò che in campagna davanti ad una tavola imbandita c’erano tutti e, in primis, quello che era stato il compagno di bisbocce giovanili il quale, fattolo sedere, gli disse a bruciapelo ”Quanno mietti a testa a postu, un tirare a cuorda, picchì a pazienza sta finienno” e “ uora voghiu sapiri ca mi porti rispettu”. Alla risposta di mio padre, “finirò quando uomini come te saranno in galera”, lo immergeranno tante volte, legato con una corda alla cintola, nella “gebbia”, il contenitore dell’acqua per l’irrigazione dei campi. Sapevano che non avrebbero ottenuto nulla e sapevano anche, che in piazza in molti avevano ascoltato e da buoni vigliacchi, come li chiamò mio padre, lo avevano lasciato andare: Quel giorno mio padre aveva avuto il primo infarto.
Il più grande dei difetti di mio padre? Era il sentimento di “ Pietas” che l’accompagnava sempre, quel sentimento di solidarietà che dovrebbe legare  tutti gli uomini, sentimento che si fortifica nelle avversità e nelle sofferenze: I morti ammazzati, a poca distanza della nostra abitazione, le lenzuola, portate da casa, per coprire quei corpi a cui era stata tolta la dignità, e in piena estate, corpi che ardevano al sole, attaccati da colonie di mosche che, con grande voracità, succhiavano quel sangue, sparato sull'asfalto. Ed io ero lì, sempre accanto al mio papà che cercava di dare umanità a quei corpi.
Io e i miei fratelli eravamo orgogliosi di avere gli stessi suoi difetti, come li chiamava mia madre ma soprattutto di avere avuto un padre straordinario. Era un istintivo  e come potete rilevare, leggendo il post sul” vecchio Marx, la cialoma e gli spaghetti alla bottarga”, aveva una personalità ben distinta da quella del vecchio, un padre che faceva valere la sua autorità in maniera pervasiva  e onnicomprensiva; un padre che trasmetteva gli ideali e i comportamenti che la vita sociale, secondo lui, esigevano. Sapeva tutto di mio padre, ragguagliato dai molti paesani che gli facevano visita, a Palermo; credo che l’arrivo inaspettato, un giorno, a casa nostra, fosse legato alle preoccupazione per i comportamenti del figlio. Durante la passeggiata per le vie del paese, riverito soprattutto dai vecchi che lo ricordavano ancora, si rivolse al figlio e con aria solenne gli disse: Emanuele, devo farti una penosa confessione! Probabilmente tua madre quando era incinta di te, affacciandosi alla finestra, ha visto “un vastasunazzu”(1) e sei nato tu, concluse: Spero che da questo momento riprenderai il tuo ruolo nella società, restituendo alla nostra famiglia il  posto che le spetta.
Ma mio padre era anche altro: Bell’uomo, affascinante, capace di attrarre con la dialettica e con la simpatia, pieno di verve, e attento al fascino femminile: Naturalmente il trasferimento da single, nel palermitano, per mia madre era stata una tragedia sia perché mio padre sarebbe andato a briglie sciolte, sia perché il vecchio Marx la riteneva colpevole di avere circuito il figlio, spingendolo al matrimonio. Per noi figli, quando finalmente si è riunita la famiglia, è stata una grande festa e abbiamo riconosciuto a mia madre la capacità di giudicare: E’ vero, siamo lo specchio umano e sociale di questo padre, un uomo che credeva nei valori della dignità e dell’uguaglianza. E da lui abbiamo imparato anche ad amare Favignana, l’isola che gli era rimasta nel cuore e che ritrovava, tutti i giorni, nei suoi piatti di pesce e soprattutto di tonno. Per mio padre la buona tavola aiutava a vivere meglio con se stessi e con gli altri, per questo amava condividere i piatti, da lui preparati, oltre con la famiglia, anche con gli amici ai quali, con orgoglio, faceva assaggiare la bottarga, il lattume e il cuore di tonno che faceva giungere da Favignana  dove da ragazzino, raccontava sempre, andava a pescare i ricci con i quali la madre gli preparava il piatto preferito, "Gli spaghetti ai ricci di mare". Io li ho mangiati “ Gli spaghetti ai ricci di mare”, preparati da mio padre, e vi assicuro che è un primo semplice ma che esalta il gusto e il profumo del mare come pochi altri piatti riescono a fare, una bontà per veri intenditori. Io vi propongo la ricetta, sperando che riusciate a trovare i ricci appena pescati e che sappiate aprirli. Se aveste delle difficoltà,  ecco un affettuoso consiglio: Fate un simpatico viaggio nelle Egadi, preferibilmente Favignana, o nelle Eolie o in Sardegna dove gusterete un primo sontuoso.

Spaghetti ai ricci di mare
Ingredienti
400 g. di spaghetti, 300 g. di uova di ricci di mare freschi, 1 spicchio d’aglio schiacciato, qualche ciuffo di prezzemolo lavato e scelte le foglie, tritarle grossolanamente, olio extravergine, olio, sale (dopo avere assaggiato).
Preparazione
In una padella, fare dorare uno spicchio d’aglio schiacciato che eliminerete dopo 5 minuti e spegnete il fuoco. Nel frattempo cuocete gli spaghetti, scolate al dente e versateli subito nella padella, sotto la quale avrete riacceso il fuoco, date un giro, aggiungete le uova di riccio e mescolate finché si spargerà e avvolgerà tutta la pasta. Preparate il piatto, dopo avere aggiunto il tritato di prezzemolo. E veramente buon appetito!




(1) Vastasunazzu è un derivato di vastasu: persona volgare, non avvezza a modi signorili. La borghesia ricca si faceva trasportare per le strade di Palermo dai “vastasi”, uomini del popolo che reggevano le portantine dette sedie volanti.

                          

domenica 15 maggio 2016

Il vecchio Marx, l' uomo senza tempo



Il vecchio Marx, il nonno paterno, apparteneva alla buona borghesia di Favignana: bello, alto e prestante, raffinato, autorevole, estremamente riservato, scrupoloso, fermo e risoluto. Viveva nel cuore dell’isola, dove gran parte della popolazione viveva di pesca; era istruito come lo erano i fratelli,( mio padre conservava, gelosamente, l’attestato di laurea, a procuratore, dello zio di cui portava il nome, datato 1898),  faceva parte di un ceto ristretto di intellettuali ed imprenditori, un circolo chiuso  tanto da costringerli spesso a matrimoni tra parenti, come è avvenuto tra mio nonno e mia nonna che erano cugini. Nel 1887, a soli 21 anni, il vecchio Marx, vince il concorso per titoli come collettore dell’ufficio postale di 3° classe di Favignana, incarico che prevedeva adeguata istruzione e una capacità economica che permettesse di gestire autonomamente il servizio e le spese di gestione ma anche dei privilegi, uno dei tanti, ottenere la successione diretta del titolo, in qualsiasi momento, a vantaggio dei familiari che possedessero adeguata istruzione, naturalmente, e capacità economica, ciò che avverrà quando, allontanato dall'isola e inviato a Benevento, per non aver accettato la tessera del fascio. La nonna, sua collaboratrice, infatti, lo sostituirà nella gestione dell'ufficio, con grande scrupolo cercando, nello stesso tempo, di guidare la famiglia come il marito avrebbe voluto. Durante il suo allontanamento in “alta Italia”, così i siciliani chiamavano le città fuori dallo stretto, perde il figlio più piccolo, Domenico.
Il vecchio Marx rientrerà in Sicilia ma non nella sua piccola isola; gli sarà offerto la direzione della ricevitoria in un paesino del palermitano in odor di mafia. Accetterà la proposta per riunire la famiglia e si fermerà in quel luogo fino al pensionamento, all'età di ottantasei anni, lasciando un segno profondo soprattutto fra i paesani che ne riconoscevano l’autorevolezza, ne apprezzavano la scrupolosità e la capacità di “ mitteri o so postu i malandrini”, con il suo comportamento. Continuerà a tornare a Favignana da cui faceva arrivare il tonno per cucinare quelle ricette che gli facevano ricordare la sua terra e le sue radici, in particolare “ Gli spaghetti alla bottarga”, dal sapore intenso e unico, il cibo dei pescatori, che gustava, sempre, con una punta di nostalgia, forse perché la bottarga è la storia dei pescatori di Favignana che, per secoli, prepararono e consumarono questo cibo nelle lunghe giornate in mare aperto.
Mio nonno con emozione, poche volte l’ha dimostrata, ricordava a noi nipoti, come un piatto povero, come gli "Spaghetti con la bottarga", oggi diventato protagonista nell'alta cucina, esaltava la bellezza, i colori della sua terra facendo rivivere le immagini della mattanza, dei tonnaroti che intonavano i canti della cialoma .(1)
La ricetta che vi presenterò è quella che mia nonna preparava al vecchio Marx, semplice ma dal sapore unico, che sicuramente diventerà anche vostra.

Spaghetti alla bottarga
Ingredienti: 500 g. di spaghetti, 1 spicchio d’aglio, 1 peperoncino, olio extravergine,100 g. di bottarga grattugiata, pizzico di sale
Preparazione
In una casseruola fate soffriggere, in olio extravergine, aglio e peperoncino e contemporaneamente cuocete gli spaghetti in abbondante acqua salata e portatela a cottura, quasi al dente. Scolate gli spaghetti, conservando un po’ d’acqua di cottura. A questo punto versate la pasta nella casseruola mescolate con l’intingolo di olio e peperoncino, grattugiate la bottarga e mescolate con un po’ di acqua di cottura per amalgamare il tutto. Vi consiglio di servirli ben caldi, accompagnati da un buon vino rosso di Sicilia.



(1) Cialoma: ( da shalom, parola araba che significa saluto) preghiera che si cantava nei vari momenti della mattanza.
La prima cialoma è quella che cantano i pescatori mentre imbarcano le reti ed è dedicata ad una giovinetta, Lina, figlia di tonnaroto che bisogna maritari; essa simboleggia la pesca, ancora vergine e bellissima, e la necessità che sia ricca e fortunata. E la cialoma, che cantano, nell’attesa del 1° branco di tonni, è una preghiera, espressa dal rais che diventa sciamano millenario, sacerdote delle preghiere e di fatture magiche perché ognuno di loro sa che la buona annata dipende sì dal mare e dal vento ma anche dal cielo e dall’inferno.
Così cantavano:
“Un Credo o Signuri
una Salve Regina a Maronna ri trapani,
una Salve Regina a Maronna du Suffragiu,
una Salve Regina a Maronna di Fatima e va avanti  con altri santi fino a concludersi con
Un patri nostru a san Petru chi prea u Signuri pi nna bunnanti pisca
nna Reca Materna all’armiceddi santi priaturi ri nostri morti.”





                          

giovedì 12 maggio 2016

Nonno Nino, il mio compagno di giochi, dei racconti e delle piccole cose

Nino, il nonnino materno

Proprietario terriero, amante della natura e uomo sensibile.
 Era una figura asciutta, mani grandi e callose, viso bruciato dal sole e pesante nei movimenti, forse per la stanchezza; tornava dalla campagna carico di ciò che la natura in quella stagione offriva. 
Con gioia, lo aiutavo a portare in casa la frutta e la verdura aspettando, dopo cena, il rito delle storie. Ricordava spesso e con tristezza, il suo "re ", Vittorio Emanuele, di cui era, orgogliosamente coscritto  e malediceva  Mussolini che, per far passare la ferrovia nel paese, gli aveva portata via una buona parte della proprietà "per quattro soldi", ripeteva sempre. 
Con emozione, parlava della sua terra, del rispetto e della cura per preservarla: ” Lu patri si nni va la roba resta” ( l’uomo muore, la terra no), così diceva.
Era un proprietario terriero ma soprattutto un uomo semplice, buono e con un temperamento genuino, vicino alla natura, senza sotterfugi e di grande generosità, un gran lavoratore che usciva all’alba, “ a li sett’orbi” diceva sempre la nonna, e  andava a letto “a la cuddata di lu suli come li addini” (al tramonto del  sole come le  galline).
Mi ha molto amato, ancora di più da quando mio padre si era trasferito nel palermitano, sostituendolo e rassicurando me e i miei fratelli, dandoci la certezza di essere protetti, nascondendo l’indignazione per un comportamento discutibile,  a cui non sapeva dare  alcuna spiegazione.
La domenica era abitudine fare colazione insieme a me: "Milia, così mi chiamava, trovando difficile la pronuncia del mio nome e io, correndo, salivo lo scalone della casa, noi abitavamo al piano terra, e mi sedevo accanto al mio nonnino che, come sempre, mi faceva trovare la sorpresa sotto il piattino e poi andavamo in chiesa, dove accendevamo i lumini per i nostri morti e finalmente in piazza, dove incontravamo i suoi amici e dopo aver comprato i dolci, si tornava a casa, dove come sempre la mamma gli faceva trovare il piatto preferito: “Il timballo di anelletti, melanzane e pistacchio”.

Se volete provare, ecco la ricetta del Timballo al pistacchio 


1 kg anelletti, passata di pomodoro,1 cipolla tagliata a fette sottili, basilico, ½ kg melanzane lunghe, 300 g. di ricotta salata, 2 uova sbattute, olio extravergine, 200 g di pistacchio di Bronte tritato, pangrattato

Preparazione
Salsa: rosolare, in una casseruola con dell’olio, la cipolla, versare la salsa, salare, lasciare cuocere fino alla cottura e aggiungere il basilico.
Melanzane: tagliare a fette, cospargere di sale, farli spurgare per circa quindici minuti, quindi sciacquarli e farli scolare; friggere in padella con olio d’oliva e asciugarle su carta assorbente.
Ricotta salata mescolata con il pistacchio tritato
Scolare gli anelletti, a mezza cottura, mescolarli prima con le uova sbattute e poi con  abbondante salsa

Procedimento
Spennellare con l’olio, l’interno della teglia e spolverarla con pangrattato; sulle melanzane poggiate sul fondo, versare la metà degli anelletti che avete già condito, con le uova sbattute e con abbondante sugo, e distribuite bene su tutta la superficie come farete subito dopo con la ricotta arricchita dal  pistacchio e ricoprite con altre melanzane, aggiungendo ancora due cucchiai di salsa. Distribuire il resto della pasta e ancora qualche cucchiaio di salsa e spolverate di pangrattato.  Infornare il timballo nel forno preriscaldato a 200° per 30 minuti.
Mio nonno lo apprezzava molto ed io lo trovo squisito.







martedì 10 maggio 2016

Le linguine al picpac e il dialetto palermitano






A luglio del 1952, con la chiusura dell’anno scolastico, abbiamo raggiunto la zona del palermitano perché il nonno, aveva deciso di andare in pensione e ritirarsi a casa della zia, " permettendo" a mio padre  di ricongiugere la famiglia. La decisione dell'ottantaseienne Marx,  come lo chiamavamo noi nipoti per la lunga barba bianca, aveva meravigliato tutti e soprattutto gli abitanti del paese che ne apprezzavano la personalità, l’autorevolezza, la scrupolosità e, come dicevano, la capacità, con il suo comportamento, di “ mitteri o so postu i malandrini”.
Invece la partenza da Paternò era stata dolorosa ed emozionante, soprattutto per me: Il nonno Nino, che era stato il mio compagno di giochi e di vita, nascondendo le lacrime, mi raccomandava di fare la brava, di tornare spesso a trovarlo e di ricordarmi sempre che nelle piccole cose avrei trovato gioia e serenità. Aveva proprio ragione! Ancora oggi il mondo contadino mi accompagna: I cibi, gli ingredienti, gli odori, la spontaneità e la semplicità nel rapporto con gli altri, ne è un esempio.
Giunti nella nuova abitazione, ci aspettava  la cameriera Peppina che, vista l’ora, aveva preparato il pranzo, costituito anche da “Linguine al “picchio pacchio”. Non potete immaginare lo stupore e il disagio nel sentire questo termine perché, nel catanese, indica il sesso femminile e mio padre, anticipando una possibile domanda, ci spiegò che l' onomatopeia era associata al “picpac…” che fa il pomodoro quando cuoce. Vi assicuro che non è stata l’unica parola che ci ha creato qualche problema: “Muffuto” cosi  era stato apostrofato mio fratello, in classe, dal compagno, sconvolgendo mia madre, pensava alla muffa, che non sapeva che il termine significasse spione,  e  non parliamo delle difficoltà nell’acquistare i vari formati di pasta: a Catania“I curadduzzi , coralli come quelle delle collane, a Palermo si chiamavano ditalini e quante altre volte si tornava a casa per spiegare che quello che cercavamo apparteneva ad altro formato; e ancora il verbo infilare e inficcare, l'uno palermitano l'altro catanese, con significato sessuale.
La “salsa a picchio pacchio o pic pac”, primo piatto della cucina palermitano, è stato apprezzato subito da tutti noi perché buono, di facile preparazione ma soprattutto perché rispecchiava il gusto e la genuinità dei cibi della cucina dei nonni materni: L’odore erboso dei pomodori appena raccolti, quello pungente dell’aglio e il profumo del basilico, il cui aroma rende il gusto inconfondibile.
La salsa dà gusto anche alle le minestre e alla pasta coi tenerumi, verdura che trovo in estate  al mercato dei contadini di porta palazzo di Torino,  e con la borragine o  coi babbaluci ( lumache) al pic pac.
La qualità privilegiata è il pomodoro sammarzano o il riccio a canestro corleonese, dal gusto antico che, in inverno, è sostituito da quello in scatola, di una buona qualità.
E' talmente semplice e veloce preparare questo piatto che puoi contemporaneamente occuparti della salsa e della cottura della pasta.
                                               Le linguine a picchio pacchio
1 kg di pomodori sammarzano o riccio a canestro, pelati, senza semi e schiacciati con la forchetta, aglio 2 spicchi, un mazzetto di basilico, sale, olio extravergine
Linguine ½ kg
La preparazione
A differenza dei palermitani, (friggono cipolla e aglio e poi aggiungono il pomodoro) mia madre, ritenendo che i gusti sarebbe rimasti” più netti ”, preferiva cuocere, in padella, tutti gli ingredienti insieme: Il pomodoro pelato e senza semi, schiacciato con la forchetta, olio extravergine, l’aglio e una parte di basilico, salare e cuocere per circa 10 minuti, ricordandosi di aggiungere, prima di spegnere, il resto del basilico. Dopo aver scolato la pasta, versarla in padella e amalgamarla con il pomodoro. Servire a tavola con qualche foglia di basilico fresco e buon appetito.  


domenica 8 maggio 2016

Le lune, il dolce povero di Natale



Era stata mia madre a parlarmi del Monastero di clausura SS Annunziata di Paternò dove erano state create i dolci, le “ lune” e i”biancomangiare” le cui ricette, le suore, finché hanno potuto, hanno tenute segrete all'interno delle mura; e di come le stesse erano state divulgate in paese, attraverso le donne, che erano state chiamate dalle suore, impegnate in cucina per preparare queste delizie, per i lavori pesanti. Le lune, in particolare, chiamate anche lune di Maometto, dolci a forma di mezzaluna, sono il dolce di Natale dei paternesi che fatta propria la ricetta, col tempo, ricordava mia madre, l’avevano rivisitata, nei suoi ingredienti originari, infatti un ripieno di fichi secchi, ridotti a pasta, miele, arancia, limoni canditi, pinoli, noci, mandorle, aveva perso la frutta candita, sostituita con l'uva passa e l'aggiunta del marsala. I giorni che precedevano le festività era un andirivieni di donne che preparavano le lune e altri dolci natalizi, e lo stesso avveniva a casa dei nonni dove mia madre e le zie, alle prese con la preparazione dei dolci, mi permettevano di aiutare e curiosare: Ero sempre lì, porgevo gli ingredienti e osservavo come impastavano la farina e mescolavano i vari elementi ma soprattutto quando, con le formine di latta o di legno, creavano i dolcetti che, con le mani, agili ed esperte, venivano arricchiti da decorazioni, particolarmente fantasiose.

E le "lune", insieme "u cucciddatu palermitanu" ai “bocconcini d’arancia mandorlata, arricchiscono la mia tavola  nel periodo natalizio e sono i dolci che offro, come buon augurio, agli amici.

                                                            Le lune
Ingredienti
Pasta: 1 kg. di farina 00, zucchero g.400, 1 bustina lievito per dolci, burro g. 250, 3 bicchieri di latte tiepido, 
Condimento:1 kg di fichi secchi, 250 g. di nocciole tostate e tritate, 250 g. noci tostate e tritate e 250 g. di mandorle tostate e tritate, 150 g. di pistacchi di Bronte tritati, un cucchiaio di uva passa, 200 g. di scorza d’arancia grattugiata 250 g. di zucchero, 2 cucchiai di miele all'arancia e un  bicchiere d’acqua e/o marsala.

Preparazione
Partiamo dal condimento che deve essere preparato uno o due giorni prima dell’esecuzione, essendo un’operazione lunga.
Condimento: Tritate grossolanamente i fichi secchi e versateli in una pentola insieme alle nocciole, noci, mandorle, pistacchi di Bronte, tritati ( se non trovate pistacchi italiani, piuttosto non metteteli) e l’uva passa;  aggiungete la scorza di arancia grattugiata , lo zucchero, il miele e un bicchiere d’acqua. Mescolate e mettete sul fuoco, cuocete per circa 15 minuti, girate, ogni tanto, per evitare che si attacchi, quindi lasciate raffreddare e conservate in frigo. (Mia madre preparava il composto di sera, lasciandolo in balcone, tutta la notte, a pentola coperta, per farlo raffreddare e amalgamare, come diceva lei, “al sereno” cioè al freddo naturale dell’ inverno).
Il condimento si mantiene anche una settimana; sappiate che potete conservarne una parte in congelatore, per qualche mese,  io lo faccio, ciò vi permetterà di poter preparare ancora dolci a carnevale.
Pasta: Impastate la farina con il burro, a temperatura ambiente, e il lievito per dolci. Sciogliete lo zucchero nel latte tiepido e versate lentamente nella farina, quindi impastate fino ad  ottenere un composto omogeneo e consistente.

Esecuzione
Accendete il forno e portatelo a 180° e intanto stendete con il mattarello, su un piano infarinato, la pasta e  formate, con una base circolare ( io uso una tazza per il caffelatte) dei dischi di pasta: Sistemate sulla metà del disco un cucchiaio di ripieno e copritelo con l’altra metà, quindi sigillate bene con i rabbi della forchetta, formando una mezza luna e adagiatela sulla teglia. Dopo aver preparato tutte le paste,  infornate per  circa 20 minuti e prima di tirarli fuori dal forno, spennellate con l’uovo sbattuto che renderà i dolci dorati. A cottura finita, sfornateli, spolverateli con lo zucchero a velo e fateli raffreddare.  



La ricetta originale


"Lune", ricetta originale, del 1819, delle suore del monastero della SS Annunziata di Paternò.
Dosi: 1 rotolo ( corrisponde a 8oo g.) e 1 oncia (corrisponde a 25 g.).
La ricetta: farina rotolo ( maiorca), zucchero once 10, sugna once 10, uova 3, miele ¼ di rotolo, una parte di uva e 2 parti di fichi.

venerdì 6 maggio 2016

Il Natale della mia infanzia tra sacro e profano



....Era un andirivieni di donne, teglie da infornare e tanti dolci, i cui ingredienti i regalava la natura: Fichi, mandorle, pistacchi, arance, miele.

Chiesa di Santa Barbara a Paternò.jpgLe usanze siciliane del Natale legano il sacro con il profano: Il culto religioso si mescola alle manifestazioni dei giochi pirotecnici, al suono delle bande musicali, fino alle decorazioni appariscenti ma soprattutto alla cucina tradizionale. Nei menù natalizi del catanese, ciò che non mancano mai sono le scacciate e le cassate alla ricotta, nelle loro varie versioni e il
paese di Paternò, dove ho vissuto la mia infanzia, e ancor più le sue vie, diventava teatro di una festa allegra e gioiosa, dal sapore semplice e familiare.
Ricordo bene! Nei giorni che precedevano il Natale era un fermento collettivo: La stradina, le poche famiglie, il piccolo forno, i lavoratori di marmo e un piacevole vocio di donne, indaffarate a preparare le loro specialità, piatti tipici, profumo di crespelle, di dolci ripieni che uscivano dai forni e di risate e di giochi di bambini (c’ero anch'io) che aspettavano con golosità di assaggiare o rubacchiare qualche buon dolcetto. E’ insomma,  uno spettacolo a cielo aperto, perché tutto avveniva nella strada, considerato il salotto di casa, punto d’incontro della piccola comunità.
Tanta tradizione, come quella dei presepi che venivano arricchiti da ghirlande di arance tarocchi, prodotti tipici del luogo, e mandarini,come  il rito delle novene, davanti al presepe (cominciava  il 16 dicembre e finivano il 24) dove si riunivano a pregare, intonando canti, accompagnati dal suono della zampogna e noi bimbi aspettavamo la fine delle preghiere perché era rituale che la padrona di casa regalasse mandarini e sacchetti di caramelle. E noi c’eravamo, anche se assonnati, all'ultima novena, quella della notte di Natale in chiesa dove i suonatori, con la loro musica, trasmettevano pace e spiritualità e ricevevano, insieme ai presenti, il vino, l’uva passa, le paste delle lune e i fichi secchi.
Io ho un ricordo vivo del Natale a casa dei nonni materni: Ci si riuniva tutti, i figli e nipoti, e gli ultimi giorni, che precedevano il Natale, era un andirivieni di donne, teglie da infornare, cibi genuini e gustosi, e tanti dolci i cui ingredienti ci regalava la natura: fichi, mandorle, nocciole, pistacchi, arance, miele  con i quali si preparavano le famose “ lune” per la loro forma a mezzaluna, accompagnate da vermuth o marsala e i “bocconcini di arancia  mandorlata", ricetta della mia bisnonna. Questi sono i dolci tipici che sono ancora la mia consuetudine e quella delle mie nipoti.
Sulla tavola, ben apparecchiata per l’occasione, erano presenti i tradizionali antipasti come crespelle, salsiccia locale, scacciate, carciofi all'acciuga e aglio, cardi in pastella, baccalà fritto, seguiti, quasi sempre, dalle lasagne al sugo e poi ancora dalle costine di maiale, dall'agnello con patate al vino bianco per arrivare ai dolci della tradizione e sulla tavola trovavamo il melograno, l’uva sultanina, le noci e le mandorle che rappresentavano il simbolo dell’abbondanza e propiziavano la ricchezza e la fertilità.
Il profumo delle crespelle invadeva la sala da pranzo: la nonna e le zie, come in una catena di montaggio, manipolavano una pasta liquida, preparando  morbidissimi bocconcini sfiziosi, con filetti d’acciuga o con ricotta, con una tecnica raffinata e veloce che non si insegna e che, come spiegava mia madre, era considerato un dono antico e familiare che si acquisiva per imitazione ( io l’ho imparato, osservandola e aiutandola durante la preparazione). Potete provarci, ma può essere una buona opportunità, mangiarli in loco. Visitate Catania, potrete gustare tanto buon cibo di strada nei carretti o nelle tipiche bancarelle che smerciano queste meraviglie.
Vi presenterò il dolce natalizio " le lune" nella prossima pubblicazione.





giovedì 5 maggio 2016

Catania, la mia sicilianità e il cibo di strada



La mia sicilianità, mix di due culture, quella del catanese, dove sono nata, e quella del palermitano, dove sono vissuta fin dall’infanzia, mi permette di trattare la cucina di strada a Palermo e a Catania in modo personale; in quelle strade, animate dai richiami dei venditori, ho potuto assaporare pietanze gustose e particolarmente stuzzicanti.
La mia esperienza comincia a Catania quando piccolina accompagnavo la mia mamma a fare acquisti per la città, dove si faceva la prima colazione con latte di mandorla e iris e si concludeva, prima di tornare a casa, con l’arancino per me e, per la mia mamma, la cipollina, specialità  che acquistavamo per strada, fra le bancarelle: E’ la famosa cucina di strada che era ed è una tradizione che affonda le sue radici nella storia della città e nella contaminazione culturale con i popoli mediterranei: Una gastronomia da passeggio, che mantiene il legame con la cucina casalinga, consumata velocemente.
La cucina di strada, con il suo dedalo di vie, con i cibi economici, cucinati e consumati velocemente, é una ristorazione, a cielo aperto, un’antica e radicata consuetudine culturale.
E' un viaggio alla ricerca della ristorazione di strada, diffusa in tutta la città, abitata da chi vuol mangiare ancora autenticamente catanese.
Fiorisce soprattutto nei mercati, luoghi autentici come la pescheria, detta anche “Fera di lune” ma anche nei carretti vocianti, che girano per la città e nelle friggitorie: E’ come partecipare ad uno spettacolo teatrale.
Per dissetarsi, meta obbligatoria sono i chioschi, disseminati in ogni angolo della città, per un selz limone e sale, la bevanda estiva, quindi ci si può fermare in una delle tante “putie” ( le osterie di un tempo) per rifocillarsi con un panino di carne equina.
“L’arrusti e mangia” è infatti  un modo per indicare la consumazione della carne e in particolare quella di cavallo e di asina arrostita e i clienti, mentre aspettano, possono attingere ad un buffet di antipasti, ricco di tipicità come gli spiedini e le polpette,  posti sui tavolini alla buona, disposti sul marciapiedi.
Il famoso mercato del pesce è il più grande d’Italia, meglio noto come la pescheria, dove prima del palato sono gli occhi a gioire e dove la confusione, i profumi e i colori riportano molto più facilmente a suggestioni da bazar.

Vi si possono assaggiare vassoi di cicireddi, pesci piccolissimi infarinati e pronti ad essere fritti e mangiati all’istante, il mauro, “u mauru” in dialetto, alga croccante che si gusta con sale e limone oppure all’aceto, ormai talmente rara, da essere una delizia da vero gourmet.

Si tratta di un’erba marina dai lunghi filamenti callosi, che cresce spontanea lungo le coste laviche catanesi ma che è quasi scomparsa, per l’inquinamento. E ancora si possono gustare preparati di maiale, come il “sanguinaccio”,  il sangeli in dialetto ( a base di sangue di maiale) e lo zuzzo ( gelatina di carne).
In rosticceria si può gustare l’arancino, chiamato al maschile, grazie all’ambiguità della lingua siciliana che, per alcuni termini, accetta sia il maschile che il femminile ( a Palermo si chiama arancina e ha forma rotonda), la celeberrima cipollina, (specialità a base di pasta sfoglia, pomodoro, cipolla, mozzarella e prosciutto) e la mitica cipollata (pancetta di maiale , avvolta su cipolla lunga).
Cibo, Frutta, Agrumi, Cedro, EbraismoE ancora "le crespelle c’anciova e ca’ ricotta”, presenti sulle tavole anche a Natale  e San Giuseppe, sono delle frittelle di semola che vengono impastate con filetti di acciughe e ricotta, che vengono gustate  nelle rosticcerie. E’ facile era incontrare, per strada, anche i carretti colmi di “piretti”, cedri tagliati a fettine, disposte in piattini e conditi col sale.
Andando in giro per la città, è facile incontrare persone che mangiano passeggiando, a qualsiasi ora e soprattutto con le mani. E’ uno spettacolo!