venerdì 16 dicembre 2016

A nuvena di Natale e ciaramiddari


E scendevano dalla montagna, i "ciaramiddari", ricordando che il Natale stava arrivando, suonando le struggenti e caratteristiche note, per annunciare la nascita di Gesù Bambino.
La piccola via si metteva in festa: La facciata delle case si ornava di” frasche" d’arance, di immagini dei Santi e noi ragazzi ci affollavano dietro "i ciarameddari", che andavano a suonare davanti alle cappellette con la luminaria, accanto agli usci.
Era una festa di affettuosa aggregazione, di attesa per un evento in cui si riponeva la speranza di abbondanza e prosperità e per questo alla novena si portava in offerta, il meglio che si poteva trovare, in quella stagione.
Tutto cominciava dopo la festa di Santa Barbara, che terminava l’11 dicembre; a casa era tutto un fermento, per la composizione del presepe e  “a cunsata da nuvena”, la cui preparazione era compito del nonno che aveva, già, portato dalla campagna l'occorrente, per preparare la struttura e anche gli agrumi, per abbellirla.
Dopo aver preparato il telaio di canne, piegate ad arco, rivestito da un telo bianco e coperto al’esterno da foglie di alloro e, nella parte anteriore, da rami di biancospino e asparago selvatico, il nonno mi disse: “Adesso puoi collaborare, porgimi le arance, i limoni e i mandarini che disporrò, a coppie, sui rami di biancospino, tanti quanti sono i giorni in cui si celebra “a nuvena” mentre all’interno, sotto un cielo stellato, appendiamo, i biscotti, la mostarda, le caramelle, i fichi d'india, mele cotogne, nespole d’inverno e melagrani, tutti prodotti che la nonna, io lo sapevo perché l’avevo seguita in quello strano posto che mi incuriosiva sempre,  aveva preparato sul tavolo”.
Che bello, era proprio bello! E lo fu ancora di più quando, su una base di vischio il mio nonnino collocò la Madonna col Bambino, invitandomi ad inginocchiarmi e, dopo aver fatto il segno della croce, a ripetere la preghiera, mentre, per tutta la casa, si spandeva, dal braciere,  “a conca”, l’odore della buccia di arance e mandarini, che bruciavano nella carbonella.
E quando arriveranno i ciaramiddari, chiesi? Tra qualche giorno, rispose il nonno, arrivano da Maletto, con il loro abbigliamento montanaro, scendendo a dorso di muli, per animare le celebrazioni religiose.
E cosi era stato! Davanti all’altarino, dove si ripetevano gli antichi canti, c’eravamo tutti, i nonni, i familiari, i vicini, grandi e piccoli, tutti in piedi attorno al presepe e “u ciaramiddaro” di fronte; dopo che la nonna ebbe acceso le nove candeline, numero dei giorni della novena, ascoltammo, in religioso silenzio, le invocazioni e i canti di Natale e, alla fine, intonammo “Tu scendi dalle stelle”. Tutto durava, al massimo, cinque minuti e via al presepe successivo, erano tre le famiglie, e noi bambini facevano corona, ressa al nostro suonatore che riceveva, ogni volta, il solito bicchiere di vino, tanto che, dopo i primi giorni, il forte odore di ovile si mescolava ad un vago sentore alcolico;  il 24 dicembre era l’ ultimo giorno di musica e preghiere “pu ciaramiddaru” che, finalmente, poteva tornare a casa, dopo essere stato pagato.
E noi bambini che tutte le sere vivevamo una grande festa, aspettavamo, anche, con grande impazienza, il giorno della “scunsata da nuvena”, per poter gustare finalmente, i dolcetti e la frutta che erano stati appesi per abbellirla; ma tutto era nelle mani del nonno che nel disfare “a nuvena”, cioè eseguire il rito propiziatorio, che riteneva una cosa molto importante, non voleva intrusi, purtroppo, considerando il risultato vitale, per la famiglia perché le spine del biancospino, che erano state a contatto con il sacro, dovevano essere bruciate e se il fumo fosse andato verso destra, il responso sarebbe stato positivo, promettendo che l’annata del raccolto sarebbe stata ricca e copiosa, se a sinistra, sarebbe stata disastrosa e io sapevo che solo se il risultato fosse stato il primo, avrei potuto trascorrere una bella serata con il mio nonnino e pregavo che tutto andasse bene. Per fortuna quasi sempre il responso era positivo e quando questo non avveniva, io gli stavo vicino e lo consolavo.
Quanta emozione! Ancora oggi, i lontani ricordi d’infanzia mi riportano alla memoria riti, volti e affettività, ormai lontani, ma che rimangono sempre il mio scrigno di emozioni.
 





martedì 6 dicembre 2016

La Pasqua della mia infanzia: U ciciliu, la gioia dei bambini


Chiamatelo cuddura ccù l’ovu.  campanaru o cannatuni, pupu ccù l’ovu, cannileri, panareddu, palummedda o ciciliu, ma è sempre lo stesso dolce pasquale siciliano, amato dai bambini.

 Nel palermitano, la Pasqua era tutta un’altra cosa: Era finita la piccola comunità, dissipata negli appartamenti condominiali sparsi nella città, ormai era una festa cittadina.
 E io ritornavo, col pensiero, al mio paesino, al mondo semplice, alla festosa partecipazione delle famiglie, ai riti ma soprattutto al dolce che rappresentava la gioia della pasqua.
 La nonna me lo ripeteva spesso: “Il ciciliu rappresenta il tipico dono che ci si scambia, nel periodo pasquale, molto economico ma nutriente, di sapore genuino e di particolare profumo ma è anche molto colorato, grazie all’uso dei “cimini”, le codette. La preparazione, di questo dolce pasquale, si tramanda da generazioni in generazioni e costituisce un vero e proprio rito della comunità; tra il giovedì e il venerdì santo, ci si ritrova, nella cucina e tutti attorno al grande tavolo con le donne di casa e le vicine, con compiti diversi: La persona più esperta,  di regola la persona più anziana e con più esperienza, si occupa delle figure più elaborate, aiutata dalle altre donne, alcune preparando gli arredi del ciciliu e altre come spicciola manovalanza, si limitano a spennellare la pasta con l’uovo battuto”.
Ricordo bene! Era arrivato il giovedì santo, la nonna, che sapeva che avrei fatto di tutto per esserci, mi spiegò che dovevo stare lontana dalla cucina fino a quando non sarei stata chiamata: Ma perché nonna, io non disturbo, non impiccio? Lo so che vuoi aiutarmi, ma dopo che abbiamo infornato il pane, rispose: Nella “maidda” c'è la pasta lievita,  “no furnu” stanno bruciando i zucchiceddi, legna grossa, per poi infornare il pane per la settimana, quindi è meglio che tu aspetti fuori. Quando avremo riposto il pane e coperto la tavola con una tovaglia, dove lavorare la pasta per i dolci pasquali,  tu siederai accanto a me e mi aiuterai ad abbellire la pasta del ciciliu, per renderla regale, mentre la zia Nunzia comincia ad infornare.
E così era stato: Seduta vicino alla nonna, osservavo con curiosità la maestria nell'uso delle mani, la rapidità dei movimenti per creare frutta, fiori e ornamenti vari; e  il mio compito era mettere i piccioli alle mele e alle pere, modellate dalla mia mamma, legnetti ricavati dai rametti di ulivo, con l'occhiello delle chiavi fare la bordura e poi, con il ditale, fare i cerchietti sulla pasta biscottata, artisticamente intrecciata in varie forme, conigli, cesti, corone, con incastonate uno o più uova, secondo la destinazione e dove le donne poi avrebbero collocato i fiorellini, le colombine, i tralci, roselline  e piccole calle. E anche gli strumenti usati, erano i più svariati, oggetti familiari, vissuti nella vita di tutti i giorni: Ditali,  per decorazioni a puntini, coltellini, calchi di latta o di zinco o di rame o formelle di gesso e il rocchetto del filo per cucire, gli stampini in legno, tappi, l’estremità di una chiave, usata come punzone, e per ritagliare la sfoglia di pasta si usava lo “sperone”, un oggetto in metallo (di regola di rame). 
Ero affascinata, in particolare, dagli orpelli e i ricami barocchi, e dagli ornamenti con i quali la nonna arricchiva, con un lavoro laborioso, i dolci, facendoli diventare, opere d’arte; e grande fu la mia sorpresa quando, sfornati i cicilii, mi disse: “Scegli quello che ti piace di più, è il mio regalo di Pasqua”. Ero davanti a pecorelle, conigli, cestini, corone, con un uovo sodo incastonato ma anche campane, pupe, galletti e ciambelle con due o più uova: Ero indecisa, cosa scegliere, mi anticipò la mamma che mi invitò a prendere la colomba, spiegandomi che oltre ad simbolo della pace, rappresentava la festa, e, poi, ha due uova incastonate, concluse. Si, era quello giusto, l’avrei mangiato con  nonno Nino, pensai e di corsa e felice, salii al piano di sopra dove il mio nonnino, come faceva sempre, mi aspettava per cenare. Che serata e che bambina fortunata!















mercoledì 16 novembre 2016

E..vivemmo la Pasqua palermitana

                           
E mia madre disse: Sono feste di città!
Era la prima Pasqua, nel palermitano e, curiosi di conoscere come si vivesse la festa, ci siamo rivolti ai parenti; sollecito fu lo zio Guido che, con poche parole, ci spiegò le fasi della Pasqua palermitana,  la visita dei sepolcri, il giovedì santo, la via Crucis del venerdì e finalmente  il giorno di Pasqua con il rituale della santa messa, del ramo d'ulivo e la palma benedetti e infine l’acquisto in dolceria, come i siciliani chiamano le pasticcerie, degli agnelli pasquali, fatti di pasta reale e “i pupi cu l’ovu " che avrebbero accompagnato il pranzo, naturalmente, con i parenti e relativo scambio dei regali, per i bambini. Ed io chiesi: Quando prepareremo i dolci della festa? Te l’ho già spiegato, dice zio Guido, li compreremo in pasticceria, solo le “massaie” preparano i dolci in casa, mentre le zie prepareranno il pranzo pasquale con manicaretti, particolarmente succulenti.
“Ma zio, risposi, é tradizione che prima della festa ci si riunisca in famiglia, per la preparazione dei"cicilii" o "i pupi ccu l’ova", come li chiamate voi, e mentre zie e parenti si dedicano ad arricchire il dolce, noi bambini ci divertiamo a decorarli. Il silenzio dello zio mi rattristò a tal punto da farmi correre da mia madre che, cogliendo il mio stato d’animo, mi rassicurò promettendomi che il giorno dopo, giovedì santo, come era sempre stata nostra tradizione, ci saremmo ritrovati, in cucina, per la preparazione dei dolci di Pasqua. Ma io volevo capire: Mammina, perché la tradizione, dai parenti palermitani, è vissuta, senza particolare complicità? La risposta fu concisa e precisa: Sono feste di città e, senza darmi il tempo di chiedere altro, aggiunse, tra qualche anno, capirai.
Quanto mi mancava Paternò, la mia piccola strada, un paesino in miniatura, il via vai dei vicini di casa, le grida di gioia dei tanti bambini e gli odori di forno: Era una festa di popolo e di emozioni, tutto seguiva un copione millenario, in uno scenario naturale.
I rituali si aprivano la domenica delle palme, che rappresentava il momento gioioso della festività, rappresentato da grandi pale di palme e ramoscelli d’ulivo momento in cui in gruppo, la mia famiglia e i vicini di casa, si andava in chiesa, dopo aver comprato, da artigiani abilissimi, i simboli religiosi che, dopo la benedizione, venivano posti dinanzi all’immagine della Madonna, il nonno invece li portava in campagna, a tutela, per le loro virtù miracolose, diceva lui, della sua proprietà, della casetta rurale e contro i temporali.
Al clima festoso delle Palme, subentrava il massimo raccoglimento della Settimana Santa, in cui si rinnovavano riti antichi e solenni che si aprivano con il giovedì Santo e la visita dei sepolcri, ma quella particolarmente commovente e partecipativa era la processione storica dell’Addolorata del venerdì, la via crucis, che noi, piccola comunità, seguivamo insieme a tutto il paese. Dalla collina, la Madonna e il figlio morto scendevano a valle per dare vita alla processione più straordinaria e suggestiva dell’anno: Il corteo si snodava, silenzioso e mesto, per le vie del paese e, anche se era quasi primavera, sembrava che anche il cielo esprimesse l’angoscia dell’evento.
E’ ancora la Collina storica era il luogo che accoglieva, con trionfo, il Cristo risorto, con la bandiera bianca, e, da lì, la processione scendeva verso il fondo valle, accompagnato dai tanti fedeli e da noi bambini felici, con il vestitino nuovo e le bimbe anche con il fiocchetto tra i capelli.
E a mezzogiorno, sciolte le campane, si festeggiava la Pasqua, la festa del perdono per eccellenza, “la festa de li festi” che rappresentava, per la gente, l’occasione per riappacificarsi con chi si aveva avuto qualche screzio: In qualsiasi luogo si fosse, si baciava per terra, e lo facevano tutti, e si baciavano conoscenti e amici, scambiandosi gli auguri e noi bambini tornavamo a casa con i regalini, ricevuti dai parenti e amici, il sacchetto di “cosaduci” e “u ciciliu”, il dolce fatto di pasta di pane lievitata e decorato da uova sode e glassa di zucchero che si tramanda di generazione in generazioni e grazie ai suoi sapori e odori che emana, permette di conoscere le antiche tradizioni siciliane.
E proprio“i  nostri cicilii” regalammo agli zii e ai cuginetti di cui eravamo ospiti, il giorno di Pasqua; quanta gioia e curiosità negli occhi di Nando e Salvatore, che continuavano ad osservare i coniglietti decorati a mano che portavano, sulle orecchie, il nome di ognuno di loro: Era un dolce speciale, preparato secondo la tradizione paternese con pasta artisticamente intrecciata, incastonata di uova sode e arricchite da palline colorate, con cui io stessa, avevo arricchito gli animaletti.
Così era vissuta ed è ancora oggi si vive la Pasqua, nella mia famiglia: I nipoti fanno le richieste e la sottoscritta, la settimana che precede la grande festa, prepara "i cilicii" personalizzati, e le emozioni affiorano prorompenti, risvegliati anche dagli odori che si diffondono in tutta la casa, ed è facile ritrovarsi nella grande cucina,  quella dei nonni, dove tutto  aveva sapore di genuinità e fratellanza..













giovedì 27 ottobre 2016

Il giorno dei morti? In Sicilia era una festa!


Ma io ricordo, bene, come la vivevo, prima a Paternò e poi nel Palermitano, la vigilia della festa dei morti, cu “U scantu e a curiusità”! ( con lo spavento e la curiosità).
E l’ambivalenza dei siciliani con il mondo dei morti! Da un lato le anime dei trapassati vengono scacciate attraverso riti e preghiere, dall’altro invece proprio le anime dei defunti vengono invocate, per chiedere protezione e aiuto; ed era ciò che capitava a me perché ero contenta di ricevere i regali,  con l’emozione di chi sperava di trovare ciò che aveva scritto nella sua letterina, ma anche spaventata se, svegliandomi di notte, mi fossi trovato accanto al letto, la nonna o altri parenti defunti.. E queste paure aumentavano quando, per farmi andare a letto, la mamma e gli zii, mi raccontavano sui defunti che si svegliavano, si rifornivano di dolci, giocattoli, regali, sottratti ai negozianti per portarli in regalo ai piccoli della famiglia, ma solo, se lo avessero meritato”, aggiungendo che i morti capivano se un bambino dormiva veramente o faceva finta, “ T’arattunu i peri e si si svigghiu ti mettunu a cira ‘nta l’occhi” ( ti grattano i piedi e, sei sveglia, ti mettono la cera negli occhi), ripetevano e  la mia reazione era sempre la stessa, nascondere la grattugia e sperare.
E quanto era bello il mattino dopo! Dopo essermi svegliata, con il cuore che mi batteva forte, forte, mi alzavo alla ricerca frenetica dei regali, nascosti negli angoli più impensati della casa, dopo aver recitato la supplica: “Armi santi, armi santi/ iu sugnu unu e vuatri / siti tanti:/ Mentri sugnu ntra stu munnu di guai/ così di morti mettiti minni assai”. E poi trovavo”u canistru”, il cesto colmo di frutta fresca, l’ossa ri morti (*) e “a pupa di zucchero”, dolce antropomorfa di chiara origine romana, e qualche volta le scarpe nuove che, oltre ad essere utili, erano anche un augurio per il nuovo anno. E, finalmente, noi bambini ci ritrovavamo per strada con i nostri giochi e dolcetti e, cantando la canzoncina della ricorrenza, entravamo nelle case dei vicini che ci regalavano il dolcetto, l’ossa di morto e altri piccoli regalini. Quanto ci divertivamo!

Ecco la tiritera:

Talè chi mi misiru i morti,       (Guarda cosa mi hanno portato i morti)
‘u pupu cu l’anchi torti,           (statuetta composta di un impasto di zucchero, con le gambe storte)
‘a atta ch’abballava,                 (la gatta che ballava)
‘u surci chi sunava.                  (il topo che suonava)
Passa la zita cu ‘a vesta di sita, ( passa la fidanzata con la veste di seta)
Passa ‘u Baruni  cu i cavusi a pinnuluni ( passa il barone con i pantaloni a penzoloni)
  
E’ evidente che vivevamo la ricorrenza dei morti con gioia e serenità, come la vivevano gli adulti, felici che i nostri defunti tornavano a trovarci e sarebbero tornati l’anno dopo. E si faceva gran festa: Le scuole erano chiuse per due giorni, si trovavano bancarelle ovunque, stracolme di giocattoli e grandi luminarie.
E in Sicilia non c’è festa che non venga contrassegnata da un cibo dedicato alla ricorrenza! La colazione del giorno dei morti é “la muffoletta”, (pagnotta morbida più grande di quella utilizzata per il pane e panelle) calda, condita con olio di oliva, acciughe e caciocavallo a scaglie; ed era anche la colazione del nonno che, poi, accompagnava noi tutti al cimitero, per salutare i nostri morti. Si saliva nella collina storica, dove il panorama la faceva da padrona e si lasciava un fiore sulle tombe dei parenti, dopo avere recitato una preghiera e, a pranzo, mia madre preparava pietanze che la nonna defunta gustava con piacere e mentre si mangiava si pronunciava la frase di rito:”Saziate l’armuzza santa di me matri o di me nanna o di me mogghieri, a seconda del rapporto di parentela.
Oggi è solo un dolce ricordo! Con Halloween, la festa, per i bimbi siciliani, è un fatto puramente commerciale, fatto di moda e spavento, e, purtroppo, tutta un'altra cosa!.


(*) Ossa dei morti:Macabri dolcetti a forma di tibia o femore o falange di pasta bianca che si sfarina sotto i denti, proprio come ossa vere su uno strato di pasta marrone dura, difficile da addentare, che rappresentava la bara.

giovedì 20 ottobre 2016

Parlando di parmigiana, quella rivisitata da mia madre

Come tutte le ricette tipiche della mia terra, anche per la "parmigiana di melanzane" è importante conoscere la città o la provincia o la famiglia, ogni buona nonna ha tramandato la ricetta alla propria figliola, dove viene preparata.
Chi mette il parmigiano, chi la mozzarella, chi la provola, chi il prosciutto e le uova sode, chi infarina le melanzane e chi no, chi addirittura le impana in uovo e pangrattato, chi li griglia e infine chi li fa in bianco senza sugo, ma solo con una sorta di pastella di uovo e di latte.
La parmigiana fa parte della categoria dei secondi piatti e, perché no, anche dei piatti unici, ma è anche servita come antipasto, fredda e tagliata a tocchetti;  la pietanza é “piuttosto corposa e anche se è un piatto tipicamente estivo non é adatta al caldo, però non manca nelle tavole dei siciliani e, soprattutto, nelle località balneare.

Nelle ricette antiche siciliane, non era previsto l’uso del parmigiano ma formaggi locali dal sapore più intenso come il pecorino pepato siciliano, che era la ricetta che  apprezzava il nonno: “Lo ricordo il mio compagno di giochi, io lo aiutavo, alle prese con la parmigiana contadina, come la preparava la “sua” mamma, fin dall’ inizio del secolo scorso, con il cacio, il pepato o il primo sale. Ma quella della nostra famiglia, rivisitata da mia madre nei suoi ingredienti e, resa più leggera perché no fa ingrassare, é composta di pochi elementi di qualità, tanta pazienza e gioiosità, quella la mettevo io, naturalmente, ed é sempre stata la nostra parmigiana che vi presenterò e che sono sicura piacerà anche a voi.

Parmigiana

Ingredienti
1 melanzana ( preferibile la violetta lunga palermitana): tagliare a fette in lunghezza, cospargere di sale, farli spurgare per circa quindici minuti, quindi sciacquarli e farli scolare; friggere in padella con olio d’oliva e asciugarle su carta assorbente.
 ½ l di salsa: In una pentola, fate dorare lo spicchio d’aglio con un filo di olio e aggiungete la salsa, salate  e fate cuocere, quindi aggiungete qualche foglia di basilico e, se necessario, aggiustate l’acidità, con un cucchiaino di zucchero.
1 spicchio d’aglio, 1 mozzarella tagliata a fettine, parmigiano grattugiato, basilico, olio extravergine, sale e zucchero (se occorre, per aggiustare l’acidità della salsa).

Preparazione
Disponete, in una teglia da forno, un primo strato di melanzane, cospargetevi la salsa, aggiungete qualche foglia di basilico, disponete le fettine di mozzarella e completate con una generosa spolverata di parmigiano grattugiato e continuate a formare gli strati, chiudendo con delle fette di pomodori, spolverati di parmigiano.
Mettere in forno a 180° per 20 minuti e  buon appetito!


Qualche notizia
Napoli e Palermo si contendono l’esclusività della ricetta; non c’è, comunque, da meravigliarsi visto che il regno di Sicilia prima e quello delle due Sicilie dopo comprendeva tutta l’Italia meridionale.
La prima testimonianza storica sulla parmigiana è contenuta nel “Cuoco galante”( 1733) di Vincenzo Corrado, cuoco pugliese, al servizio delle più importanti famiglie aristocratiche della Napoli del ‘700.
Ippolito Cavalcanti,duca di Bonvicino descrive, nel 1839, una ricetta simile nella sua “Cucina casarinola co lo lengua napoletana (Cucina teorico pratica), così scrive: ”E farai friggere le melanzane e le diporrai in una teglia a strati con il formaggio, basilico, brodo di stufato o con salsa di pomodoro e coperte le farai stufare”.
L’utilizzo del parmigiano arrivò in una fase successiva come alternativa al pecorino e i napoletani ci aggiunsero anche la mozzarella.
E l’origine del nome?
Alcuni pensano che il nome derivi dal termine dialettale “parmigiana” che sta ad indicare l’anta a listelle delle persiane di legno che ricorda la forma in cui le melanzane si tagliano e in cui si dispongono nella teglia.





mercoledì 5 ottobre 2016

A putia r'o vinu e "Upurpu 'mbriacu"



Mio padre, quando preparava “U purpu ‘mbriacu” raccontava sempre la stessa storia: La vecchia putia r’o vinu,( le osterie che vendono vino) frequentata da uomini del paese che, prima di rientrare a casa, per la cena, si fermavano a giocare a carte e lui, piccolo ma molto curioso, quando riusciva ad uscire di casa, si fermava sulla soglia dell’osteria per sbirciare: Vedeva, nel locale semi buio, gli uomini, chiacchierare e  mangiare  pezzetti di formaggio, uova sode e qualche volta, il polpo ubriaco che l’oste poneva al centro del tavolo, accompagnato dal vino. Ci raccontava che, nell'ingenuità di bambino, pensava e sperava che il polipo potesse riprendere vita e, anche se barcollando per i fumi dell’alcool, uscire dal piatto, sgattaiolamdo via". E anch'io, tutte le volte che preparo questo piatto, immagino che il tenero piccolo polipo, come nei cartoni animati, si ricomponga e, quatto quatto, se la svigni.

 
“U purpu ‘mbriacu” (Il polpo ubriaco)
Può essere gustato come secondo piatto da consumarsi con fette di pane casereccio, leggermente tostato o anche freddo, come insalata, oppure per preparare delle ottime bruschette. Un’altra soluzione, interessante, è quella di condire, grazie al fondo di cottura estremamente saporito, un buon piatto di spaghetti, avendo l’accortezza di sminuzzare una parte del polpo, in pezzetti piccoli.

Ingredienti

1 kg. di polpo ( ricordare che se il polpo è fresco deve essere  battuto più volte in modo da rilassare le nervature presenti nei tentacoli; se è congelato invece può essere cucinato subito)
3 agli, ½ l di buon vino rosso, 3 foglie di alloro, 1 peperoncino rosso,piccante, 2 cucchiai da tavola di prezzemolo, 6 cucchiai di olio extravergine d’oliva.
Pulire il polpo sotto l’acqua corrente, privandolo delle viscere, del dente centrale, degli occhi, per quanto è possibile, della patina che ricopre il polipo, quindi tagliatelo in pezzi (Potete comprarlo già pulito).

Preparazione

In un tegame, versare l’olio, aggiungete gli spicchi d’aglio intero, unire le foglie di alloro, il peperoncino, tagliato a pezzettini, avendo l’accortezza di eliminare, in tutto o in parte, i semi qualora non si gradisca una pietanza troppo piccante. A questo punto, unire il polpo a pezzi e fare saltare qualche istante, quindi aggiungere il vino rosso e un po’ di prezzemolo tritato. Dopo aver portato ad ebollizione, abbassate la fiamma, coprire e cuocere per 40/50 minuti, in base alla durezza del polpo stesso. Se il sugo dovesse restringersi troppo, aggiungete qualche cucchiaio di acqua. Pochi istante prima di togliere dal fuoco il polpo ubriaco, aggiungete una generosa manciata di prezzemolo tritato e aggiustare di sale e lasciare intiepidire qualche mi

lunedì 3 ottobre 2016

Arancia:Come estrarre la polpa dal suo involucro



Tagliare le due calotte superiore e inferiore, pelare il frutto a vivo; al suo interno la polpa è avvolto ancora, ai lati, da una pellicina che dovrete liberare dalla stessa con il coltello, estraendo così gli spicchi uno dopo l'altro.

Nonno Nino, i braccianti e l'insalata contadina



Ricordo ancora nonno Nino e i braccianti, in campagna, durante la pausa pranzo, mangiare l’insalata di arance, attingendo dallo stesso piatto comune, posto al centro della tavola; mi incuriosiva  quella piccola comunità, da cui si avvertiva un senso di condivisione e di unione, mentre ride e scherza, dimentica della stanchezza di quel duro lavoro. Nella mano destra la forchetta e nella sinistra  il pezzo di pane di casa raffermo con la funzione di supporto e tanti ingredienti, quasi tutti raccolti al momento: Le arance tarocchi , le dolci e croccanti cipolle rosse,  le gustose “alivi cunsati”, i pomodori con le sue foglie dal caratteristico odore, gli aromi come menta, basilico o origano, il tutto condito, naturalmente, con l’ottimo e buon olio di casa, cioè quello siciliano.
E il fiume,che attraversava la proprietà, permetteva di lavare la verdura, di pulire le stoviglie e, per i braccianti, anche la possibilità di potersi lavare alla fine della giornata, prima di tornare a casa.

Piatto molto antico della cucina siciliana tradizionale che le famiglie più povere gustavano come piatto unico, l’insalata, che racchiude i profumi e i sapori dei prodotti della nostra terra, è ideale come antipasto o per accompagnare del pesce arrosto. La ricetta, facilissima da preparare, può essere realizzata in tantissime varianti e può essere personalizzata a seconda dei gusti.

E’ anche adatta  come pietanza veloce, da consumarsi durante una pausa pranzo, dai minuti contati, quindi vi presento una particolare ricetta, pratica con ingredienti che non appesantiscono, saziando .
Insalata di arance, finocchi, olive nere e pomodorini

Ingredienti
3 Arance: Sbucciare e pelare a vivo le arance ed estrarne gli spicchi;  
1 finocchio: Affettare sottilmente i finocchi, lavarli bene in acqua e bicarbonato di sodio, sciacquare e lasciarli sgocciolare i un colapasta.
10 olive nere snocciolate;
I00 g. di pomodorini ciliegini, tagliati a metà, il peperoncino a lamelle sottili, se di gradimento;
Condire con olio extravergine, succo d’arancia e completare con  una presa di sale.

Preparazione
In un piatto versate le arance, tagliate a fette, aggiungete i pomodorini, il peperoncino a lamette sottili, se di vostro gradimento, le olive denocciolate, il finocchio affettato sottilmente. Condire con olio extravergine e succo d’arancia e completare con una presa di sale.


martedì 27 settembre 2016

Favignana: Le donne e l'incucciata

Nei mesi primaverili, mio padre amava tornare a Favignana ed io ero felice di accompagnarlo. Trascorrevamo il fine settimana, nell'isola, rivisitando i luoghi della sua infanzia, incontrando vecchi compagni di giochi e aspettando che la fedele Maria, da giovane lavorava per la famiglia, già avvisata, preparasse “ u cuscusu”, il piatto rappresentativo dell'isola con il pesce che mio padre aveva acquistato al molo. Ormai le nostre visite avevano qualcosa rituale, come rituale era la richiesta alla vecchia Maria, di farmi assistere alla preparazione "ru cuscusu", che esperienza!
Maria, quella tenera vecchietta, mi aspettava con gioia e sorridendo mi confermava che potevo assistere alla preparazione du “cuscusu”, come lo chiamano i favignanesi, ricordandomi che la preparazione di questo piatto aveva un alone di sacralità e che si tramandava da madre in figlia.
In quella grande cucina, riscoprivo un mondo di antiche tradizioni: Tante donne,  forse parenti e amiche , sedute attorno alla tavola dove era posta, la mafaradda  che conteneva la semola a grana grossa, il “lemmo” e una ciotola di acqua salata. Ero affascinata da quelle donne semplici e amabili e dalla naturalezza con cui lavoravano manualmente la semola: le loro dita bagnate, con  movimenti veloci e rotatorii formavano piccolissimi grumi e li  depositavano nel lemmo, dove continuavano il movimento con il palmo della mano, unto di olio, che permetteva di separare i grumetti tra loro; procedimento lungo, stancante ma particolarmente interessante!
Pensavo che dopo la cottura, ( la cuscusiera e la pentola erano state sigillate ca “cuddura”, pasta molle di acqua e farina), ci si potesse sedere a tavola, invitati anche dal  profumo che si spandeva intorno ma, come disse Maria, dovevo ancora pazientare perché "u cuscusu” doveva riposare per circa mezz'ora, con coperchio e con sopra un panno di lana e poi finalmente ammorbidito con il brodo della zuppa e arricchito con il suo pesce, che faceva da corona, poteva essere gustato. 
E finalmente, ho mangiato "u cuscusu", buono, ricco di sapore e anche molto scenografico; anche se l’attesa è stata lunga, ne è valsa la pena!
Riflettendo, sarà questo il motivo per il quale, oggi, le donne privilegiano il couscous precotto?


Cenni storici

Chiamato cuscus, kuskus ( tritato in minutissimi pezzi), è  cuscusu in provincia di Trapani, è uno dei tanti casi in cui le varie dominazioni in Sicilia hanno influenzato la cucina siciliana.
La tradizione culinaria di questi chicchi ha viaggiato dall’Africa fino a raggiungere le coste della Sicilia per poi diffondersi in tutto il continenti. Lo sviluppo di un simile piatto, però, non può spiegarsi semplicemente con l’espansione militare dell’Islam.
Esso, infatti attecchisce tra tutte le popolazioni perché è un piatto base, povero che può diventare importante se arricchito con carne e verdure o col pesce, diventando parte di ogni tradizionale cucina locale; ovviamente nella cucina egadina, il couscous è di pesce.
La leggenda  tramanda che furono i pescatori del trapanese ad importare il couscous dalle coste della Tunisia e dargli le caratteristiche tipiche locali:“I pescatori trovandosi, per parecchi mesi, nelle acque di Sfax, in Tunisia, per pescare le spugne, familiarizzarono con le popolazioni arabe fino ad assorbire le abitudine e soprattutto la gastronomia. E’ fu così che scoprirono quel piatto povero, il couscous che i tunisini, allora popolo di pastori, nomadi, condivano con le verdure e la carne di montone; i pescatori, ritornati a casa, insegnarono alle loro donne quel piatto economico ma saporito, sostituendo il montone con ciò di cui erano più ricchi, il pesce.

lunedì 19 settembre 2016

"Favi a cunigghiu chi giri" e v'arricriati!

Giornata uggiosa, quasi autunnale, decido di preparare dei legumi e come ne “La recherche …….” prustiana, la mia memoria involontaria mi riporta a quella lontana sera di novembre e allo strano piatto che nonno Nino, con cui cenavo tutte le sere da quando era mancata la nonna, m’invitava a gustare, “i favi a cunigghiu chi giri”, un piatto di legumi e verdura.
 Vedendo, sulla tavola, un  piattino, accanto alla minestra, chiesi al nonno a cosa servisse e la spiegazione fu chiara, raccogliere le bucce delle fave, cioè lo scarto rimasto, spiegandomi: Il commensale porta il legume alla bocca con il pollice e l’indice e, con gli incisivi,  provoca una fessura da dove, sempre con l’aiuto delle due dita, fa uscire il contenuto dalla buccia che viene, poi, lasciata nel piattino e la pietanza prende nome di “Favi a cunigghiu” dalla somiglianza con lo strano e curioso modo usato dai conigli, di incidere con i denti i semi, per mangiarne il contenuto. Trascorsi la serata con nonno Nino che cercava di insegnarmi come usare le dita e gli incisivi, ma inutilmente; quando tornai dalla mamma, raccontai l’esperienza e la difficoltà di mangiare le fave, come voleva l nonno e lei, sorridendo, mi spiegò che quei legumi erano state cucinati, alla vecchia maniera, intere e quindi, per fare uscire il contenuto del legume, usavano gli incisivi per creare un’apertura; ma da tempo, continuò la mamma, le fave si cuociono togliendo la parte superiore nera del legume, prima della cottura, creando un’apertura naturale che permetta, spingendo con il pollice e l’indice, la fuoriuscita del contenuto, senza difficoltà e mi raccontò anche un’altra versione dell’origine del nome della pietanza, che risaliva al dopoguerra: Molte madri, disse, per non far conoscere le difficoltà della famiglia e far credere al vicinato di cucinare carne, nell’avvisare la figlia, che giocava in cortile con gli amichetti, che il pranzo o la cena era pronta, gridava “trasi ca i favi e cunigghiu su pronti” ma la bimba a tavola trovava fave secche in zuppa. Rilevante è che questo piatto povero, di antica tradizione siciliana, tramandato quasi identico al ,piatto originale, come il mangiare le fave con le mani, ha un gusto genuino e straordinariamente gustoso e l’abbinamento delle fave con bietole crea un brodetto denso e saporito e per questo ve lo consiglio.


Fave a cunigghiu chi giri ( fave a coniglio con bietole)

 Ingredienti
250 g di fave secche con buccia ( le migliori sono le fave di Leonforte) a bagno in acqua x 12 ore;
( si consiglia di metterle in ammollo al mattino); 2 mazzi di bietole; 1 aglio in camicia; acqua; sale; olio q.b.

Preparazione
Mettere le fave a bagno, per 12 ore circa, quindi scolarle e dopo aver tolto, con un coltello, la capocchietta nera ( l’occhio della fava) sciacquateli e versateli in una pentola con abbondante acqua salata, con foglie d’alloro e lo spicchio d’aglio mettete sul fuoco. 
Quando fa il primo bollore, abbassare la fiamma e lasciare cuocere a fuoco moderato, con coperchio semichiuso, per circa 1h ma bisogna controllare spesso la cottura, assaggiando le fave e mescolando, ogni tanto, con il cucchiaio di legno. A questo punto, tolto l’aglio, aggiungere la bietola, precedentemente lavata e scolata. Da quando riprenderà il bollore, far cuocere ancora 15 m, quindi versare in una terrina e condire con olio extravergine d’oliva e come dicono i siciliani “arricriativi”!


- Arricriarsi: E’ un verbo che, nel pronunciarlo, i siciliani si “riempiono la bocca” perché descrive non solo il piacere di ciò che hanno mangiato, ma uno stato d’animo.

giovedì 15 settembre 2016

L' agrodolce e la sua storia



La salsa agrodolce, nata in Cina dove accompagnava i cibi già cotti, è introdotta, dagli Arabi, nelle cucine europee, insieme all’uso di uva, pinolo e mandorle, dove viene usata come ingrediente, durante la preparazione e la cottura di un piatto: Elementi principali sono sempre l’aceto e lo zucchero ai quali poi possono essere aggiunti altre spezie o ingredienti, tutti secondo la soggettiva preferenza.
Questa salsa, quindi, ha un sapore antico che narra non solo la storia e la gastronomia ma anche la scienza dietetica: La logica del temperamento degli opposti e i metodi di conservazione perché sia lo zucchero che l'aceto preservano i cibi, permettendo di gustare la pietanza nella sua pienezza.

Prima dell’arrivo degli arabi e del loro zucchero di canna, l’agrodolce si dolcificava con il miele e con l’aceto;
il “ nuovo miscuglio", invece, creando un contrasto più netto tra i sapori, come sostenevano anche i medici latini," i contrasti si sanano con i contrari", permette di preservare i cibi dal deterioramento, prolungandone il tempo di consumo.
E proprio in Sicilia la salsa agrodolce trova il luogo ideale per diventare una tecnica di grande vigore, ammorbidito dalla sostituzione dell’aceto con gli agrumi e del miele con lo zucchero e da qui si diffonde anche in altre regioni del Mediterraneo: L’abilità del cuoco del tempo é quella di mescolare ingredienti e tecniche di cotture per ottenere un piatto bilanciato nel gusto, negli ingredienti e nella consistenza. ( Un piatto in agrodolce, va consumato almeno dopo un giorno di riposo e assestamento ma più passano i giorno, più è buono).
Accanto alla nuova cucina sorge anche una letteratura gastronomica. La Sicilia  dà i natali ad importanti personalità del mondo culinario: I cuochi Labdaco di Siracusa e Meteco Siculo, quest'ultimo, autore del primo libro di cucina della storia, Archistrato di Gela ( o di Siracusa ?), considerato il padre dei critici dell’arte culinaria che scrisse il noto poema “Gastronomia”,  nel quale elenca cibi e vivande, incontrate durante i suoi lunghi viaggi ma concludendo che solo in Sicilia ha trovato il buon gusto”.






Il vecchio Marx e la guerriera!

Avevamo conosciuto lo zio Pepè, in stazione, all’arrivo a Palermo e la zia Mariuccia nel paesino dove ci eravamo trasferiti e dove lei insegnava, da tanti anni. 
Era molto gentile e affettuosa, quando poteva, prima di andare a scuola, passava da casa a prendere un caffè e intanto raccontava della famiglia Lombardo, “per metterti in guardia”, diceva a mia madre che, proprio quella mattina, le comunicò che il vecchio Marx, ospite della zia Olga, da quando era rimasto solo, ci aveva invitati, la domenica successiva, a pranzo, “ per darci il benvenuto e farci conoscere il resto della famiglia”. Ricordo ancora lo sguardo della zia Mariuccia, il suo sorriso ironico, e la reazione di mia madre che, preoccupata, chiedeva spiegazioni: “Mi hai fatto tornare indietro con il tempo, rispose la zia, a quando ebbi lo stesso invito e con le stesse modalità, non voglio parlarti della mia esperienza, ti dico solo che il suocero ama molto divertirsi, giocare a mettere in difficoltà, quindi ti consiglio di stare molto attenta”.
E, per giorni, mia madre fu in trepidazione, e ce ne accorgemmo tutti soprattutto mio padre che, dopo aver saputo, cercò di tranquillizzarla, spiegando che la zia Mariuccia era esagerata, se non, addirittura, prevenuta nei confronti di suo padre; nei giorni, che precedettero la fatidica domenica, mia madre ci parlò del nonno con il quale dovevamo fare bella figura, ci consigliò di essere attenti e, se in difficoltà, di seguirla con lo sguardo. Le parole della zia Mariuccia,”il suocero si diverte a mettere in difficoltà”, ci disse, mi fanno tornare indietro col tempo, facendo riemergere lontani e drammatici  ricordi: Quel telegramma di auguri, arrivato il giorno del matrimonio,” sarete domani ciò che siete oggi”, inviato dal vecchio Marx che non aveva accettato quell'unione, avvenuta in tutta fretta e senza il suo consenso, accompagnato dal “licenziamento immediato” del figlio che, senza lavoro, per qualche anno, si occuperà della contabilità delle entrate, come la vendita dei tarocchi, e degli interessi dei nonni. E, dulcis in fundo, l’ultima vendetta quando, alcuni anni dopo, richiamò il figlio, a Palermo,  riassumendolo,  ma con la clausola “naturalmente devi arrivare, da solo”.
E mio padre tornò a Palermo da solo, ospite dei genitori e riprese il suo lavoro, per dare certezza economica alla famiglia; e furono tanti gli anni di lontananza, fino alla morte della nonna e, quasi contemporaneamente, al pensionamento del vecchio Marx che, finalmente, gli comunicava ”ora puoi riunire la famiglia”.
Era chiaro che mia madre, e lo avevamo capito bene, non avrebbe più permesso prevaricazioni o atteggiamenti provocatori, da nessuno e soprattutto dall'uomo dalla barba bianca. 
E il giorno, dell’incontro arrivò e noi ragazzi eravamo certi di assistere ad uno scontro titanico tra due personalità e l’abbigliamento di mia madre, tailleur maschile con cappello a cloche, faceva presagire reazioni forti. Noi, tutti molto eleganti, la mamma raffinata, nel suo completo alla moda, io e mia sorella in completino bianco e i miei fratelli in giacca e pantaloncino, i ragazzi, allora, non portavano pantaloni lunghi, e papà bello e affascinante, in abito blu, arriviamo a casa della zia Olga, accolti dal vecchio Marx che, prendendo per mano mia madre, si diresse, seguita da noi tutti, in salotto, dove trovammo gli zii Pepè e Mariuccia. Il momento di silenzio fu interrotto da mia sorella Agnese che, con la dialettica che l’aveva sempre contraddistinta, si rivolse al vecchio Marx, dicendo:”Nonno voglio dirti, anche a nome dei miei fratelli, che ti voglio bene; quante volte ho fantasticato su di te, guardando l’unica fotografia in bianco e nero, in cui mostri, attraverso la postura, gli occhi fieri e la folta barba bianca, un immagine sicura e forte e quante volte mi sono chiesta se anche tu mi avessi pensata e immaginata, tante volte, ho sentito la tua assenza, la mancanza di un bacio sulla guancia, i vizi, che i nonni materni, invece, mi hanno regalato a piene mani, il non essere difesa da papà e mamma, quando facevo i capricci; ma sappi che io e i miei fratelli ti vogliamo bene lo stesso, nella maniera che abbiamo imparato da soli.
Il vecchio Marx, dopo un momento di esitazione, la baciò sulla fronte e l’abbracciò forte, facendo lo stesso anche con noi e poi, rivolgendosi a mia madre disse: Hai fatto un buon lavoro, sei stata madre e padre insieme, hai dimostrato coraggio e dignità, non potevi fare di meglio e ti ringrazio e, prendendola sotto braccio, si avviò verso la sala da pranzo, seguito da tutti noi .
Mia madre aveva vinto, finalmente aveva dato scacco matto, al pater familias!       



martedì 13 settembre 2016

Il carnevale, le suore di clausura e i cannoli



“Doppu li tri rè, tutti olè” ( Dopo l’epifania è già carnevale)

 Si avvicinava il carnevale ed eravamo tutti curiosi di conoscere come il paese, che ci ospitava, avrebbe organizzato l’evento ma soprattutto come lo vivevano gli abitanti. E intanto la memoria andava al paesino di Paternò e al suo famoso carnevale, secondo solo a quello di Acireale: Dall’Epifania alle ceneri, per noi ragazzi era una festa di colori, musica e coriandoli e si girava per le strade, ballando e facendo baccano. La ricorrenza vedeva l’arrivo di tanta gente, con ogni mezzo e da ogni luogo, che invadeva il paese e soprattutto le strade che si trasformavano in piste da ballo: Tutti avevano voglia di divertirsi in allegria tra maschere e balli nelle tre piazze principali e lungo la famosa “strata dritta”, il lungo corso che partiva, dalla piazzetta della chiesa di Santa Barbara fino all’uscita per Catania. La gente, euforica, lanciava coriandoli, cipria e faceva chiasso con trombette, tamburi e coperchi di pentole e spesso c’ero anch’io, accompagnata dal nonno, soprattutto alla sfilata dei due carri allegorici, le famose macchine infiorate, una delle quali, che rappresentava del Re burlone, a mezzanotte, veniva bruciata in piazza e noi ragazzi andavamo dietro alle due bande municipali e alla maschera tradizionale, il fantasma che cammina, avvolto in un lenzuolo, con una terrificante maschera sul viso che anche se ci spaventava, volevamo vedere a tutti i costi. La sera, in piazza, tutti, rigorosamente in maschera, ballavano, mentre la musica usciva dall’altoparlante, fino a notte alta, alla luce dei lampioni ed era usanza tra le donne di travestirsi con mantelli neri e maschere, per poter invitare a ballare gli uomini senza farsi riconoscere; mia madre ci raccontava che quello era l’unico momento, per molte ragazze del paese, di poter incontrare i fidanzati, fuori dal controllo dei genitori, e per altre di divertirsi alle spalle di uomini che le avevano lasciate.
Molte maschere, in omaggio al detto “ a carnalivari semu tutti uguali” erano improvvisate dalla vita reale per cui il povero si vestiva da ricco  e gli uomini da donne e naturalmente  l’avvenimento era accompagnato dalla parte gastronomica: Nella settimana che precedeva la quaresima, si gustavano prelibatezze come la pasta “chi cincu pirtusi” (cinque buchi) o a “rota di carrettu” con ragù di maiale con salsicce e cotenna e polpette ripiene per chiudere, il pasto, con le crespelle. Che bei ricordi! Per qualche giorno, tutti si sentivano padroni del mondo, liberando la propria fantasia.

Ed ora, nel palermitano, ci chiedevamo come si svolgesse il carnevale, nel capoluogo siciliano. Lo zio Guido, la nostra fonte, ci raccontò che la festa era divertimento per tutte le classi sociali, si assisteva alle sfilate di carri, spettacoli in maschere e cuccagne, ma con una netta distinzione tra i ricchi che il carnevale lo trascorrevano, soprattutto, all'interno dei saloni di palazzi privati o nei circoli, facendo allestire festeggiamenti fastosi, e la gente comune che viveva la festa per strada, nei rioni con grande baldoria di grandi  ma in particolare dei ragazzi che seguivano le sfilate di carri, a gruppi, divertendosi, lanciando i “pittiddi” (coriandoli) ma anche i “cuoppi”,coppi di carta ripieni di borotalco sul viso dei passanti e aspettando con ansia l’uscita delle maschere più caratteristiche “u nannu e a nanna”che rappresentavano l’anno vecchio da sbeffeggiare, il capro espiatorio ma anche la saggezza, i due vecchi che, dopo una specie di processo, venivano condannati a morte e quindi bruciati e e i ragazzi erano talmente affascinati dal fuoco da sembrare ipnotizzati. Sono giorni di travestimenti e burle, così ci ha raccontato lo zio, un periodo di spensieratezza dove tutto è consentito e dove non manca la parte gastronomica con le lasagne “cacate”(1) con la carne di maiale e a “sasizza”per  concludersi con il dolce carnascialesco, per eccellenza, il cannolo, di cui si hanno, della sua origine, molte versioni.

Il fascino del racconto sul carnevale palermitano e ancora di più dei ricordi paternesi si scontrò con la realtà del paese, in cui vivevamo da mesi. Si sentiva aria di festa, soprattutto, per la produzione dolciaria, tipica del carnevale, dei piatti succulenti di cui sentivamo l’odore uscire da tante cucine, ma la festività collettiva si riassumeva nell'ultimo giorno, in parte per le strade e, per pochi, in un salone privato: Il martedì grasso, il paese era in fermento,soprattutto, alle luci dell’imbrunire,  momento in cui molte persone, vestite in maschera, soprattutto uomini, andavano per strada, facendo il giro delle viuzze, inseguite dai bambini che gridavano e li spaventavano, tirando loro i botti e il borotalco sui vestiti. Il rito, così ci raccontarono i vcini, prevedeva che le famiglie, a cui si faceva richiesta,  nel passaggio, li invitassero in casa, per offrire loro da bere, anche se, spesso, erano già ubriachi: Le maschere eseguivano il solito rituale, muovendosi in modo goffo,  tentando dei passi come in una danza folcloristica e spesso coinvolgendo i padroni di casa e dopo aver bevuto ancora qualche bicchierino, barcollando, tornavano in strada, cantando e fischiettando. La serata di carnevale si concludeva, per chi poteva permetterselo, nel salone delle “feste”, così chiamavano il salone per matrimoni del paese, dove si concludeva la festività, con musica e ballo, fino a notte alta. Ma era soprattutto la festa dei ragazzi che si divertivano tirando i “pittiddi”, borotalco e i petardi, ma anche aspettando la cena del martedì grasso che era anche il momento della pignoccata e in particolare dei cannoli, i dolci tipici della festa, chiamati così perché la forma è simile alla canna di fiume. Ricordo quando, a Paternò, rubacchiavo ditate di ricotta farcita mentre la nonna preparava le “bucce”, così in Sicilia vengono chiamate le cialde, e con quanta golosità guardavo le “ guantiere”, i vassoi, pieni di cannoli,decorati con granelle di pistacchi, di nocciole, di castagne o di ciliegie candite; e ricordo le zie chiedere la supervisione della nonna , quando si cimentavano nella preparazione delle cialde con i cilindretti di legno o di metallo, che richiedeva maestria e competenza.
Naturalmente oggi non occorre cercare canne o cilindretti di metallo per preparare le cialde, potete comprarle in qualsiasi supermercato o negozio che vende prodotti da forno, e quindi io mi limiterò a spiegarvi come farcire la ricotta e come preparare i cannoli, una delle specialità più conosciute dalla pasticceria italiana.


Cannolo siciliano
La cialde
Ingredienti per il ripieno
300 g. di ricotta asciutta ( mettere in un colino per far scolare tutto il siero, che renderebbe troppo floscia la crema), 100 g. di zucchero, zucchero a velo, granella di pistacchi, nocciole e mandorle e arance candite a pezzetti o pezzetti di cioccolato fondente.
Preparazione
Lavorare la ricotta e lo zucchero con una frusta o un frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema liscia, aggiungendo pezzetti di arance candite o pezzettini di cioccolata fondente.
Presentazione del cannolo
Inserire la crema dentro le cialde o bucce, con l’aiuto di un cucchiaino; spianare le estremità e intingerle nei granelli di pistacchi o nocciole o mandorle, quindi spolverare con lo zucchero a velo.
Servire freddi ( conservare in frigo massimo due giorni).


(1) Le lasagne, che somigliano alle pappardelle, ma con il bordo merlettato, sono chiamate, dai siciliani,“cacate” per evidenziarne l'altezzosità; il significato è associabile a “ stare sulle sue “ o si sente tutto lei”, o “se la tira”, rivolto ad una donna.


Qualche notizia in più

Il termine “cannolo” o “cannolu”, in dialetto, sta per piccolo tubo; sulla sua origine si hanno molte versione:
Si deve a Cicerone, questore di lilibeo, l’odierna Marsala, tra il 76 e 75 A.C. la definizione “ Tubus farinarius, dolcissimo, edulio ex lacte factus”( il cannolo farinaceo fatto di latte), dopo aver apprezzato il gusto di un dolce, anche se non era ancora il cannolo, che conosciamo oggi.
Nel 1635, un anonimo sacerdote dell’isola esalta in un’ottava la magnificenza del cannolo anche con metafore:

“Beddi cannola di Carnalivari,
megghiu vuccuni a lu munnu ‘un ci nn’è:
Su biniditti spisi, li dinari:
ogni cannolu è scettru d’ogni Re.
Arrivanu li donni a disistari; lu cannolu è la virga di Mosè
cu nun ni mangia si fazza ammazzari,
cu li disprezza è un gran Curnutù ‘affe!

Un’altra fonte racconta che i cannoli siano stati preparati, per la prima volta,  in un convento di clausura, nei pressi di Caltanissetta dove, in occasione del carnevale, le monache inventarono, per scherzo, un dolce, il cannolo, il cui nome viene da canna (rubinetto) e da cui fecero uscire, invece che dell’acqua, crema di ricotta. Quello scherzo divenne presto un’immancabile squisitezza di tutto l’anno.
Ma forse la più probabile è quella che racconta di molte donne dell’harem lasciate libere, quando i saraceni evacuarono l’isola, che rifugiatesi in un convento, si convertirono e collaborarono con le suore in cucina, dando vita a tanti dolci tra cui i cannoli. Il gusto corposo e forte degli ingredienti  rimanda, infatti, alla cultura culinaria araba, come l’etimologia di Caltanissetta ” Kalt El Missa” che letteralmente significa “Il castello delle donne” e dal nisseno si diffonderà prima a Palermo e, da lì, in tutta la Sicilia. Gran parte della notorietà e diffusione planetaria del cannolo si deve ai pasticceri di Palermo, che hanno contribuito a stabilizzare la ricetta come la conosciamo oggi perché in origine era un ripieno di crema e solo successivamente si aggiunse la variante al cioccolato e alla ricotta; oggi il cannolo lo si mangia in molti modi, con crema di pistacchio, al limone, con il gelato.







venerdì 9 settembre 2016

U cuccidatu: Il dolce regale palermitano



 Vigilia di Natale: Stavamo preparando il tavolo per giocare a carte a e alla tombola, quando arrivarono gli zii palermitani, carichi di regali e, per noi fratelli, la festa continuava nella gioia e nella curiosità di conoscere meglio i nuovi parenti ma, soprattutto, per me, di scoprire cosa contenessero i pacchetti regalo; un libro per Agnese, i maglioncini per Antonio e Gaetano e un giocattolo per me e mentre i miei fratelli ringraziavano, io ero alle prese con il dolce che aveva portato lo zio Guido che, nel porgerlo a mia madre, ne decantava la squisitezza, ricordando che “u cucciddatu”, così lo chiamò, era stato preparato dal suo pasticciere di fiducia, una vera delizia, disse. Fui affascinata da quel dolce, a forma di corona, impreziosita da ciliegie candite che sembrano grossi rubini , caramelline luccicanti come perle e zucchero colorato a forma di codini, "i diavulicchi",che arricchiscono la superficie merlettata.
Ma io volevo conoscerne il gusto e quindi, con trepidazione, aspettavo la famosa pausa dal gioco che permetteva di assaggiare qualche dolcetto, accompagnato da un bicchiere di liquore; e il momento arrivò, mia madre portò a tavola, su un piatto da portata, il famoso "cucciddatu” e dopo che lo zio Guido lo ebbe tagliato in piccoli tocchi, mi fiondai a prenderne uno, rimproverata aspramente da mia madre che non capiva perché fossi stata così scortese, non aveva capito che volevo conoscerne il sapore che, dopo il primo morso, mi fu familiare: Osservai il ripieno, riconobbi molti degli ingredienti, forse ce n’era qualcuno in più , ma anche il gusto simile alle lune che mia madre e la mia nonna materna ci preparavano a Natale. A differenza du "cucciddatu", quello paternese era un  dolce povero e spoglio, creato dalle suore del Monastero della SS Annunziata di questo paese, e specchio di quel luogo semplice e umile, espressione di religiosità. Ero sul punto di chiedere spiegazioni a mia madre, quando intervenne lo zio Guido che, mi stava osservando divertito e, prima che potessi porre la domanda, mi spiegò che “ u buccellato” era un dolce della tradizione, diffuso in tutta l’isola e consumato nel periodo natalizio e avendo colto i miei dubbi, mi spiegò che il dolce poteva essere simile a quello di altre zone, spesso con forma e nome  diversi e lo stesso valeva per il ripieno, che mantenendo l’ ingrediente principale, i fichi secchi, variava a seconda della zona in cui veniva preparato. Lo zio, affettuoso e gentile e cultore della storia e delle tradizioni della sua città, si sedette accanto a me e cominciò a raccontare del dolce palermitano per eccellenza e delle sue origini.
Esordì con queste parole: “Avrai notato in estate, i fichi asciugati al sole e infilati in lunghi fili di spago o”incannati”, cioè infilzati in spiedini di canne, ecco parte di questi serviranno in inverno per preparare i buccellati, questi dolci di natale che hanno origine lontana. Anticamente, infatti, a Palermo, durante la novena natalizia, le donne anziane della famiglia, per rallegrare le serate, preparavano diversi piatti tra cui il buccellato a forma di ciambella, una sorta di augurio e di potere magico, la cui farcitura, al suo interno, e la cottura al forno permettevano una lunga conservazione e la possibilità di essere consumato nell’intero periodo festivo ed essere anche utilizzato come centro tavola, prima di essere consumato come dessert. Per la preparazione dell’impasto, le donne utilizzavano strumenti semplici come una tavola in legno levigata, che sostenuta da due sedie diventava il piano di lavoro “ u scannaturi” , più basso rispetto ad un normale tavolo per permettere loro di impastare con più forza e un ferretto, preparato dal fabbro, chiamato “stigghia pù cucciddatu” che ad una delle estremità aveva una ruota dentata che serviva a disegnare una specie di merlettatura e punzecchiare la pasta frolla affinché si vedesse la farcitura. Non volevo crederci, ero rapita dal racconto! E lo zio, che aveva colto il mio interesse continuò dicendo che fatto in casa o in pasticceria, “u cucciddatu” non poteva essere presentato privo dei “diavulicchi”, codine di zucchero multicolore che richiamavano la forma della coda dei diavoli e che, simbolicamente avevano il compito di custodire il ripieno di questo dolce, uno dei più preziosi della cucina siciliana: Come gli  elementi decorativi, una serie di figure mitologiche, rappresentate in un affresco presente nel palazzo della Zisa, a Palermo, nella volta dell’arco d’ingresso alla sala della fontana l’IWAN, avevano il compito di custodire gelosamente il grandissimo tesoro in monete d’oro, nascosto nel palazzo,, così “i diavulicchi”  del buccellato custodivano il ripieno di uno dei dolci più prezioso della cucina siciliana. Incredibile! Sarei rimasta ad ascoltarlo per ore, ma il tempo era trascorso in un baleno quindi, dopo aver ringraziato lo zio e i parenti tutti, andai, soddisfatta, a dormire. Era stata una splendida serata! Ma da quel giorno, mia madre , che amava arricchire i dolci con orpelli di pasta frolla e giochi di colori, scelse di preparare per le feste natalizie anche “ u cucciddatu”, di cui vi presento la ricetta.


“U cucciddatu” ( buccellato)

Ingredienti della Pasta frolla: 300g. di Farina, 125 g.di burro, 50 g. di zucchero, 1 cucchiaio di marsala, 5g di ammoniaca, latte qb.

Preparazione: Impastare, in una terrina, la farina, lo zucchero, il burro, l’ammoniaca e un cucchiaio di marsala e impastare, aggiungendo del latte al bisogno. Quindi formare una palla, avvolgerla in una pellicola da cucina e riporla in frigo, almeno per 30 minuti.

Ingredienti del Ripieno: 300 g. di fichi secchi (  quelli di Cosenza sono il massimo non hanno semi, comunque scelta solo italiana), 30 g. di pinoli e 50 g. di mandorle, 50 g di noci, 50 g di nocciole tostate e tritate grossolanamente, 30 g. di uva sultanina, due cucchiai di miele d’arancio.

Preparazione
Mettete i fichi in ammollo, in acqua tiepida,  per qualche ora, quindi tagliateli a pezzetti e versateli  in una pentola  con le mandorle, noci e, nocciole tostati e tritati grossolanamente, i pinoli e  due cucchiai di miele d’arancio e fate cuocere per circa dieci minuti. Quando il composto sarà pronto, spegnete il gas, aggiungete la scorza d’arancia grattugiata, mescolate e fate riposare per qualche ora ( mia madre preparava il ripieno la sera prima e lo faceva amalgamare sul balcone al freddo, “o sirenu”, come dice lei, fino al mattino perché, sosteneva, i gusti si sarebbero amalgamati in modo naturale e naturalmente anch’io faccio lo stesso).

Preparazione finale
Su un piano infarinato, stendete una sfoglia rettangolare di circa 1 cm, con il mattarello e ponetevi sopra il composto, distribuendolo in orizzontale quindi arrotolatevi la pasta intorno, tagliando l’eccesso, unendo saldamente le estremità, per dare la classica forma a ciambella. Con un coltellino ben affilato, intagliate la superficie della pasta ancora cruda in modo da fare vedere il ripieno e aggiungete il decoro, a vostro piacere. Cuocete in forno, preriscaldato a 180 ° per circa 30 m., quindi tirate fuori il dolce, spennellate con un po’ di miele caldo, per rendere il buccellato lucido e trattenere la frutta candita che arricchirà la superficie, insieme ad altre decorazoni.

Qualche notizia sull’etimologia e l’origine
Il buccellato ha un sicuro antenato nel panificatus dei romani. La forma risale infatti al pane romano, dal termine latino tardo medievale “ buccellatum” ovvero il pane da sbocconcellare cioè da trasformare in bocconi. La “buccella” era il pane a ciambella che gli imperatori  romani spartivano alla popolazione, durante le feste o gli incontri tra gladiatori e l’addetto alla distribuzione si chiamava, appunto, buccellarium, da qui la storpiatura.
Si pensa, invece, che il ripieno di frutta secca si debba ad una vivace comunità di Lucchesi che vivevano in un quartiere della Loggia di Palermo, dove cominciarono a diffondere il buccellatum ripieno di frutta. La dominazione araba, nel frattempo, aveva introdotto cedri, zucche, mandorle e fichi secchi e così il ripieno man mano si era