Maria, quella tenera vecchietta, mi aspettava con gioia e sorridendo mi confermava che potevo assistere alla preparazione du “cuscusu”, come lo chiamano i
favignanesi, ricordandomi che la preparazione di questo piatto aveva un alone
di sacralità e che si tramandava da madre in figlia.
In quella grande cucina, riscoprivo un mondo di antiche tradizioni: Tante donne, forse parenti e amiche , sedute attorno alla tavola dove era posta, la mafaradda che conteneva la semola a grana grossa, il “lemmo” e una ciotola di acqua salata. Ero affascinata da quelle donne semplici e amabili e dalla naturalezza con cui lavoravano manualmente la semola: le loro dita bagnate, con movimenti veloci e rotatorii formavano piccolissimi grumi e li depositavano nel lemmo, dove continuavano il movimento con il palmo della mano, unto di olio, che permetteva di separare i grumetti tra loro; procedimento lungo, stancante ma particolarmente interessante!
In quella grande cucina, riscoprivo un mondo di antiche tradizioni: Tante donne, forse parenti e amiche , sedute attorno alla tavola dove era posta, la mafaradda che conteneva la semola a grana grossa, il “lemmo” e una ciotola di acqua salata. Ero affascinata da quelle donne semplici e amabili e dalla naturalezza con cui lavoravano manualmente la semola: le loro dita bagnate, con movimenti veloci e rotatorii formavano piccolissimi grumi e li depositavano nel lemmo, dove continuavano il movimento con il palmo della mano, unto di olio, che permetteva di separare i grumetti tra loro; procedimento lungo, stancante ma particolarmente interessante!
Pensavo che dopo la cottura, (
la cuscusiera e la pentola erano
state sigillate ca “cuddura”,
pasta molle di acqua e farina), ci si potesse sedere a tavola, invitati anche
dal profumo che si spandeva intorno ma,
come disse Maria, dovevo ancora pazientare perché "u cuscusu” doveva riposare
per circa mezz'ora, con coperchio e con sopra un panno di lana e poi finalmente
ammorbidito con il brodo della zuppa e arricchito con il suo pesce, che faceva
da corona, poteva essere gustato.
E finalmente, ho mangiato "u cuscusu", buono, ricco di sapore e anche molto scenografico; anche se l’attesa è
stata lunga, ne è valsa la pena!
Riflettendo, sarà questo il
motivo per il quale, oggi, le donne privilegiano il couscous precotto?
Cenni storici
Chiamato cuscus, kuskus ( tritato
in minutissimi pezzi), è cuscusu in
provincia di Trapani, è uno dei tanti casi in cui le varie dominazioni in
Sicilia hanno influenzato la cucina siciliana.
La tradizione culinaria di
questi chicchi ha viaggiato dall’Africa fino a raggiungere le coste della
Sicilia per poi diffondersi in tutto il continenti. Lo sviluppo di un simile
piatto, però, non può spiegarsi semplicemente con l’espansione militare dell’Islam.
Esso, infatti attecchisce tra
tutte le popolazioni perché è un piatto base, povero che può diventare
importante se arricchito con carne e verdure o col pesce, diventando parte di
ogni tradizionale cucina locale; ovviamente nella cucina egadina, il couscous è
di pesce.
La leggenda tramanda che furono i pescatori del trapanese
ad importare il couscous dalle coste della Tunisia e dargli le caratteristiche
tipiche locali:“I pescatori trovandosi, per parecchi mesi, nelle acque di Sfax,
in Tunisia, per pescare le spugne, familiarizzarono con le popolazioni arabe
fino ad assorbire le abitudine e soprattutto la gastronomia. E’ fu così che
scoprirono quel piatto povero, il couscous che i tunisini, allora popolo di
pastori, nomadi, condivano con le verdure e la carne di montone; i pescatori, ritornati
a casa, insegnarono alle loro donne quel piatto economico ma saporito,
sostituendo il montone con ciò di cui erano più ricchi, il pesce.
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