lunedì 11 luglio 2016

Il ruolo delle suore nello sviluppo dell'arte dolciaria siciliana



La chiesa, la spiritualità, le pietanze, i dolci intrisi di religiosità e anche i monasteri e le suore di clausura: Si, il ruolo svolto dai monasteri femminili, nello sviluppo dell’arte dolciaria siciliana, di quell’ambiente in cui nasce la maggior parte dei dolci, preparati in occasione di festività religiose come la Pasqua e la settimana Santa, la Commemorazione dei defunti, il Natale, San Giuseppe.
La preparazione dei dolci, per le festività, a casa dei nonni materni, era sempre accompagnata da racconti fantastici; era stata mia madre a parlarmi dei Monasteri di clausura di Paternò e di Catania dove erano state create “ lune”,”biancomangiare” e le  “minne” di Sant’Agata e di come, attraverso le donne del paese, chiamate dalle suore, per i lavori più pesanti, mentre loro erano impegnate in cucina a preparare quelle delizie. erano state divulgate in paese. E seguivo, affascinata, la preparazione e la cottura dei dolci che inondavano, con il loro profumo, la grande cucina: Ero sempre lì, aiutavo, porgendo gli ingredienti, e osservavo mia madre che, dopo aver preparato l'impasto, creava i dolcetti con le formine di latta o di legno e con le mani, agili ed esperte, li arricchiva con le decorazioni, particolarmente fantasiose (sono brava anch'io!). Spesso chiedevo alla nonna notizie su quelle suore che nessuno vedeva mai ma che, attraverso le pietanze e i dolcetti, mostravano la loro bravura e la raffinatezza nel gusto e lei, paziente, sedendosi accanto, mi raccontava: “Quasi tutti i monasteri, della nostra zona, hanno le loro specialità dolciarie, create con lo scopo di poter vivere rapporti con il mondo esterno come le suore del Monastero di clausura di San Benedetto che, durante la festa di Sant’Agata, santa patrona di Catania, escono sul sagrato all'alba, per non essere viste, e intonano un canto celestiale”.
Quando chiesi alla nonna perché fossero entrate in convento, per poi trasgredire alle regole della clausura, mi rispose che alla volontà dei loro genitori non potevano disobbedire, le giovani di famiglia nobile o agiata, disse, erano state educate per assumere, all'interno del monastero, posizioni importanti a cui erano state preparate da tempo.
Anche nel paesino dove ci eravamo trasferiti, abbiamo continuato a preparare, per le festività, i dolcetti della tradizione catanese, facendo nostri anche quelli della tradizione palermitana, anch'essa nata nei tanti monasteri, presenti sul territorio: Le monache, quasi sempre di clausura, preparavano pasticcini e dolcetti, inizialmente, solo per contraccambiare, in maniera elegante e significativa, i favori e i servizi ricevuti da Vescovi e Prelati, confessori personali, e medici e professionisti con i quali, malgrado la clausura, dovevano entrare in contatto e in seguito per sostenere le spese del convento. I dolci, con i propri simboli, costituivano i migliori regali che le suore potessero fare ai loro benefattori, grazie anche agli speciali ingredienti, presenti sull'isola: Mandorle, miele, ricotta, nocciole, pistacchi e anche lo zucchero di canna che sostituì presto il miele perché era più facile lavorarlo. Erano ricette antichissime, risalenti al periodo arabo e poi perfezionate nei monasteri che preparavano le loro specialità: Le lune erano produzione esclusiva del monastero della SS Immacolata di Paternò, I cannoli geminati, le teste di turco e le cascatelle e a Pasqua “i pupi cu l’ovu” del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto;
le suore benedettine preparavano dolcetti di pasta di mandorla; le suore del monastero di Santa Elisabetta, erano conosciute per la loro rosticceria e in particolare per “ravazzate con la ricotta”, nel Monastero Settangeli si preparavano i “Mustazzola” e “l’ossa di mortu”, tipici della ricorrenza dei morti e, nel Monastero della Pietà, si preparavano i pan di spagna e ancora.............
Pochi sono i monasteri siciliani che ancora oggi continuano questa straordinaria tradizione, quello di Santo Spirito a Agrigento, abitato dalle ultime suore di clausura, specializzati nella preparazione dei dolci di mandorla, quello di San Michele Arcangelo a Trapani e quello delle Benedettine del Monastero del S.S. Rosario a Palma di Montechiaro, dove si preparano biscotti ricci, bocconetti, pasta reale.
Quasi tutti i monasteri tramandarono le lor ricette di generazione in generazione, fino ad arrivare ai giorni nostri, attraverso persone che ne hanno fatto un mestiere, i pasticcieri.

Qualche curiosità sugli attrezzi della cucina del Monastero
Gli arnesi della cucina erano costituiti da pochi indispensabili attrezzi: per pestare le spezie,( la cannella era la più usata per aromatizzare i dolci), le nocciole, le mandorle o le noci, per preparare il torrone,, si usava un mortaio di rame o di pietra; per modellare la pasticceria si usavano calchi di latta o di zinco o di rame o formelle di gesso; per decorare si usavano gli stampini in legno ma spesso le suore usavano le mani, la fantasia e piccoli utensili: coltellini, ditale, per decorazioni a puntini, l’estremità di una chiave, usata come punzone . Per ritagliare la sfoglia di pasta si servivano dello “sperone” oggetto in metallo (di regola si usava il rame).  

giovedì 7 luglio 2016

La cuccìa, simbolo di religiosità

Erano passati pochi giorni dalla ricorrenza dell’Immacolata ed eravamo pronti a partecipare a un’altra festa religiosa e soprattutto culinaria, così la definì mia sorella, la festa di Santa Lucia.
Decisa a saperne di più sul rapporto tra la festività e il cibo, Agnese chiese altre notizie alla nonna della sua amica Amalia, quasi novantenne, che, meravigliata e nello stesso tempo compiaciuta, invitandola a sedersi, le raccontò la storia di Santa Lucia: Con un miracolo, dice, libera la Sicilia dalla carestia, facendo arrivare un bastimento di grano a Siracusa, sua città natale e i siciliani, che per diversi mesi hanno sofferto la fame, non aspettano di macinare il grano ma lo cucinano così com'è, aggiungendo solo un filo d’olio, per sfamarsi subito, dando vita al piatto della “cuccìa”(1) che da quel momento in poi è associata alla festa della santa, come penitenza e devozione di quegli eventi.
Con il passare del tempo, continuò la nonnina, quello che doveva essere una penitenza, digiunando, diviene il giorno in cui si mangia di più, trasformando il 13 dicembre in un’occasione, per tanti golosi palermitani, che non mangiando né pane né pasta, si rimpizzano con pietanze gustose e sempre più elaborate: Ceci lessati e conditi con il vino cotto, le panelle fritte e anche dolci, farcite con crema di ricotta o di uovo all'inglese, legumi e verdure a cui si aggiunse il riso, altro cereale a forma di chicco, che, consumato prima soltanto bollito, venne sempre più elaborato fino ad arrivare all'arancina, ripiena di carne tritata al ragù. La stessa trasformazione l'ha avuta la cuccìa, sospirò con nostalgia la nonnina, il grano bollito con olio diventò un dolce squisito con l’aggiunta di crema di ricotta, zucchero, cioccolato fondente, zuccata e altro ancora. Tutti i panifici della città, per la ricorrenza, come avrai notato, continua la nonna, rimangono chiusi e a prenderne il posto sono le numerose friggitorie, sia quelle stabili che gli ambulanti, a cui si rivolgono tanti avventori. Mia sorella, ringraziandola, le spiegò che la domanda aveva lo scopo di capire se il palermitano, della festività, privilegiava l'aspetto culinario. E la nonna, che l’aveva ascoltata con interesse, le confermò che tutte le feste religiose palermitane, in effetti, erano caratterizzate da piatti e dolci tipici che ne erano il sinonimo : “U fistinu non è tale senza u sfinciuni e u pani ca meusa, disse, la festa di san Martino senza i sammartinelli, l’Immacolata senza i viscotti ca gigiulena, santa Lucia senza a cuccia, le arancine, i panelli, il Natale senza i buccellati ecc., non c’è festa religiosa o patronale che non venga coronata da un dolce tradizionale”. Sembrava che la  nonnina  avesse appagato la curiosità della mia sorellina, ma non era così perché a tavola, dopo qualche giorno, mia sorella, comunicò a mio padre che finalmente aveva completato la sua ricerca dopo la chiacchierata con il suo professore d’italiano, frequentava la quarta ginnasio, che disponibile tentò di spiegarle il rapporto tra religiosità e cibo in Sicilia: Nell’isola, disse l’insegnante, ogni festa si celebra a tavola e il legame tra la preparazione dei piatti tipici e dei dolci e la funzione religiosa è molto profonda. Partendo da qualsiasi pietanza o dolce,  si possono fare collegamenti con la storia, la mitologia ma soprattutto con la religione e la chiesa, offrendo la propria tradizione per ravvivare la spiritualità dei fedeli, avvolge le usanze pagane di religiosità, facendo sì che le pietanze e i dolci, sganciati dal significato originario di alimento, contribuiscano simbolicamente a rafforzare, attraverso i riti, la devozione. La spiritualità, che accompagna la religiosità dei siciliani, è la stessa in tutta l’isola, conclude il professore, ma è vissuta nei modi più diversi, seguendo le tradizioni familiari, la cultura e la sensibilità di ogni fedele.
E finalmente soddisfatta, mia sorella, comunicando ai miei genitori che avrebbe fatto proprie “anche” le tradizioni palermitane, chiese di poter gustare la famosa “cuccìa”, simbolo di quella religiosità che fa di ogni piatto la storia di un santo e di un territorio.
Vi presento la ricetta di questo piatto, la cui preparazione è quasi un rito nelle famiglie siciliane, sperando che vogliate prepararla e sentirne la gradevolezza e il gusto antico.

“A cuccìa”

Ingredienti
Grano tenero 500 g., una presa di sale, una punta di bicarbonato.
Tenere il grano in acqua per tre giorni, avendo cura di cambiare l’acqua ogni 24 ore. Quindi sciacquare il grano in acqua corrente e lessarlo in acqua abbondante con una presa di sale e una punta di bicarbonato e fa cuocere per circa 3 h. a fiamma bassissima. Fare raffreddare nella stessa sua acqua di cottura per tutta la notte, quindi scolarlo bene e condirlo.
Crema di ricotta: 800 g. di ricotta, 300 g. di zucchero, 100 g. di gocce di cioccolato fondente, 100 g. di frutta candita, cannella in polvere, granelli di pistacchio (preferibilmente di Bronte).

Mettete la ricotta con lo zucchero in una terrina abbastanza capiente e lavorate con le fruste. Lasciate riposare per 30 minuti quindi aggiungete il cioccolato fondente e la frutta candita a pezzetti e mescolate.
Preparazione della Cuccìa
Al grano cotto aggiungete la crema di ricotta, amalgamando bene e poi servite in piccole ciotole, spolverate di cannella e cospargete di granella di pistacchio.


(1) Il nome cuccìa viene dal sostantivo cocciu, cioè chicco o dal verbo cucciari, vale a dire mangiare un chicco. Il siciliano Joseph Vinci, ne ”Etymologicum Siculum del 1759, nella parola cuccìa, vide la parola greca còccos, equivalente al termine latino granum.

Notizie sull’origine della “cuccìa”
E’ una pietanza sicuramente molto antica che i conquistatori musulmani ci hanno tramandato: In alcune città arabe, come Tunisi o Città del Cairo, è possibile assaggiare, ancora oggi, una pietanza Kech o Kesh, constituita da grano bollito, addolcito da latte di pecora o di cammello, associato a vaniglia e cannella.
La cuccìa risulta parente anche della Kòllyva greca, una vivanda a base di grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, che si porta in chiesa, alla fine di una messa di requie, su un vassoio e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti; ma risulta parente anche della Kutjà russa che era a base di grano (o miglio, orzo, riso), bollito.
In Sicilia, la sua preparazione è una vecchia consuetudine che ci perviene dall’ormai scomparso mondo contadino che, in periodo di mietitura, mangiava i chicchi di grano lessati, sul posto, nei momenti di pausa.

venerdì 1 luglio 2016

Il sacro e il profano nella cucina palermitana

:
" Perché i palermitani trasformano un momento spirituale, in puro divertimento? chiese mia sorella Agnese, provocatoriamente, a mio padre.
La festa dell’Immacolata, in tutte le città e i paesi siciliani si viveva con processioni religiose, fuochi d’artificio e cibi tipici della tradizione, e a Paternò, il paesino del catanese dove avevo vissuto , l’8 dicembre era anche il momento dei preparativi del Natale: Si  decoravano i balconi con palloncini luminosi, si addobbavano gli alberi, si allestivano i presepi e si iniziava a preparare la struttura della “nuvena”: Un telaio di canne piegate ad arco, rivestito all'interno di un telaio bianco e coperto all'esterno di foglie d’alloro e nella parte anteriore di rami di biancospino, su cui venivano disposti, a coppie arance e mandarini mentre all’interno venivano appesi biscotti, mostarda, caramelle e torrone. Su una copertura di vischio, posta alla base, veniva collocato un quadro raffigurante la Madonna con il bambino o la Sacra Famiglia. La notte di Natale “a nuvena” accoglieva il Bambino Gesù.
Ci trovavamo da parecchi mesi nel paesino palermitano e papà, che si adoperava affinché partecipassimo  alle tradizioni locali, ci spiegò tutto sulla festa l'’Immacolata Concezione: "E' la patrona della città di Palermo, unitamente a Santa Rosalia e San Benedetto e i preparativi per la festa iniziano qualche giorno prima, con l’addobbo dell’albero e la preparazione del presepe, mentre le strade si vestono a festa con luci multicolori. E il pomeriggio dell’8 dicembre si assiste alla grande processione del Simulacro argenteo della Madonna dalla chiesa di San Francesco d’Assisi fino al Duomo a cui assisteva molta gente, sia in strada che affacciata al balcone di casa esponendo, secondo un’antica tradizione, la tovaglia più bella o la coperta ricamata a mano”.
Ma i palermitani, continuò mio padre, non mancano di celebrare questa ricorrenza anche a tavola: Immancabile pietanza, caratteristica proprio di questo periodo, è “u sfinciuni”, nato per sostituire, durante le feste, il solito pane, arricchito con altri ingredienti e si mangiano “ i ricce cù sucu ri cutini”, lasagne (tagliatelle larghe) al sugo con carne di maiale e salsicce al seme di finocchio, per sancire, con questo cibo, l’arrivo dell’inverno; e ancora le verdure in pastella e il baccalà fritto, gustati insieme ai parenti ed amici per poi giocare a carte. Mia sorella Agnese, timidamente, fece notare a mio padre che, dal racconto, emergeva l’attenzione dei palermitani all’aspetto profano della festa: “Ti ricordi, papà, disse, come durante la processione di Santa Rosalia, molti partecipanti, “ con disinvoltura” , lasciavano la processione per fermarsi alle bancarelle, postate ai lati della strada, per mangiare “u sfinciuni” e le “crocchè” e, con la stessa “naturalezza”, riprendevano il cammino dietro il grande carro della Santa? E ti raccontammo che durante la famosa “acchianata” a Monte pellegrino le tante bancarelle e punti di ristoro erano stati “assaltati” dai pellegrini che, fu subito chiaro, aspettavano quel momento da quando erano partiti, trasformando un momento spirituale in un vero e proprio divertimento, in una scampagnata, da terminare con una bella mangiata, e lo verificammo ancora, continuò mia sorella, durante la festa di San Martino dove l’aspetto gastronomico la fece da padrona: Gli anelletti al forno, “u adduzzu agglassatu”( galletto) con le patate, i primi cavolfiori affogati, la prima ricotta e il pranzo si concludeva con le “sfinci” di San Martino, i biscotti “sammartinelli” e le “reginelle” o viscotti cà gigiulena. Le donne, infatti, trascorrevano le giornate in cucina a preparare pietanze della tradizione e proprio per questo, ci ricordò la vicina di casa, era buona creanza, che non si andasse in casa altrui il giorno 10 e soprattutto l’11 novembre perché tutte le donne erano alle prese con i manicaretti e una visita improvvisa, rallentava il lavoro ed equivaleva alla tacita richiesta d’invito. Mio padre, sorridendo sotto i baffi, li portava veramente, perché probabilmente gli era piaciuta l’analisi attenta, fornita da mia sorella, rispose: Le feste religiose hanno sempre due facce della medaglia, una sacra e l’altra profana e la cucina ha un ruolo importante. In occasione delle grandi feste, vengono preparati piatti di solito assenti dalle nostre tavole, durante il resto dell’anno e per i palermitani, il cibo è l’elemento primario di un momento sacrale, “Santo veni, festa fai” (arriva il festeggiamento del santo e fai festa), perché si sta insieme ma anche perché la preparazione di un certo cibo svolge un ruolo importante, addirittura simbolico, nel ricordare il significato che sta dietro al piatto come “i viscotti cà gigiulena”o reginelle (biscotti con i semi di sesamo), biscotti secchi di pasta frolla, buoni, friabili e fragranti, ottimi a colazione con il caffè o dopo il pasto con un vino liquoroso. E sono veramente speciali i “viscotti cà giagiulena”; io li preparo a casa da sempre e il loro odore e sapore sono inconfondibili ma quando li gusto a Palermo è tutta un’altra cosa. Spero vogliate provarci, sono deliziosi!

I viscotti cà gigiulena ( le reginelle)

Ingredienti
500 g. di farina 00; 200 g. di zucchero; 150 g. di burro, 200 g. di sesamo; 2 uova; 20 ml di latte, 1 bustina di lievito Bertolini.
Preparazione

In una terrina, mescolare la farina, lo zucchero, il lievito, il burro, le uova, 2 pizzichi di sale. Amalgamare con energia e a lungo fino ad ottenere un composto piuttosto consistente, quindi far riposare l’impasto per 2 ore.
Trascorso questo tempo, formate dei bastoncini della lunghezza di cinque centimetri e passateli per bene nei semi di sesamo fino a completa copertura della loro superficie ( se necessario spennellateli con poco latte per fare aderire bene i semi). Trasferire i biscotti in una teglia rivestita con carta da forno e cuocere in forno preriscaldato a 200° per 10 m, finché i biscotti non avranno assunto un colorito dorato, Quindi continuare la cottura a 160° per altri 10/15 m affinché i biscotti si asciughino per bene al loro interno.     





domenica 26 giugno 2016

La mia maestra e "i sfinci" di San Martino



Quando il primo ottobre entrai nella mia nuova classe, tante bambine mi guardavano con la stessa curiosità con cui scrutavano la nuova insegnante, anche Lei appena arrivata dal “continente”, in seguito al trasferimento del marito. La maestra Maglienti, così si chiamava, si rivelò molto severa ma anche molto disponibile e attenta verso ognuna di noi che, provenendo da famiglie con grande disparità economica, sociale e soprattutto culturale, aveva bisogno di particolare attenzione.
Capitava spesso che, durante la lezione, la maestra, penso curiosa di conoscere la città che la ospitava attraverso il racconto dei locali, ci invitasse a parlare delle nostre tradizioni e usanze che rendevano Palermo e la Sicilia affascinanti, stimolando la gara tra noi alunne, gara che si accentuò il giorno in cui ci chiese di raccogliere notizie sulle tradizioni e i piatti tipici della festa di San Martino, che si sarebbe festeggiata pochi giorni dopo. Ero contenta, incuriosita e particolarmente stimolata dalla novità, che mi permetteva anche di conoscere meglio le mie compagne; ma che lavoro per la mia mamma che, disponibile e paziente perché ero lenta nello scrivere, mi dettava le notizie, facendomele ripetere più volte mentre aspettavo con ansia di raccontarle alla maestra che a scuola, il giorno dopo, lodandoci per i nostri lavori, organizzò gli interventi. Gloria lesse i proverbi, “A san martinu ogni mustu è vinu”,  “è l’estate di San Martino”, espressione la prima che ricorda che in questo giorno si spilla la botte e si assaggia il vino e che l’11 novembre è conosciuto in Sicilia come l’ultimo giorno d’estate, aggiungendo che durante questa giornata, i bambini passeggiavano per le vie, portando vassoi e cesti, ornati da tovaglie splendidamente ricamate che contenevano oltre al regalo, dolciumi e soprattutto i “panuzzi di San Martino”. Luisa descrisse il Santo come era rappresentato nelle raffigurazioni sacre, con armatura, mantello e spada, in sella ad un cavallo bianco. Maria, impaziente, la interruppe per raccontare la tradizione a Palazzo Adriano, una località in provincia di Palermo, dove si ripeteva un’antica usanza che vedeva come protagonisti i novelli sposi che ricevavano dai loro parenti e dai loro amici cibo, accessori utili per la casa e una fornitura del necessario per affrontare l’inverno. Quando la maestra, mi chiese di parlare delle usanze catanesi, risposi che la festività, così mi disse la mia mamma, si svolgeva in tono minore, gustando il vino accompagnato da qualche focaccia: In una frazione del paese di  Milo, si assaggiano salsicce con caliceddi ( verdura selvatica che nasce solo alle falde dell’Etna), castagne e vino, cannoli alla ricotta, torte fatte in casa e castagne, mentre ad Aci Bonaccorsi si mangiano i carduni, la mostarda di fichidindia e si beve il vino novello, con il quale si fanno delle gare di bevute, mentre a Trapani, me lo raccontò mio padre, in questo giorno si mangiano le “muffulette”, focacce condite con semi di finocchio e ricotta, accompagnate da un bicchiere di vino rosso. A Loredana, la nonna aveva raccontato che il culto era arrivato a Palermo con i Normanni e che la ricorrenza si festeggiava in due giorni diversi: Quella dei ricchi, l’11 novembre, e quella dei poveri la prima domenica successiva, perché per poter imbandire la propria tavola, molte famiglie dovevano attendere la paga settimanale, ma che i ricchi e i poveri mantenevano un’usanza in comune, “abbagnavano nnù muscatu” (inzuppavano nel moscato) il tradizionale biscotto di San Martino detto Sammartinello.
Ma qual era il pranzo della festa, chiese la maestra a Rossana: Da sempre si inizia con gli anelletti al forno, poi con “u adduzzu agglassatu”( galletto) con le patate, i primi cavolfiori affogati, la prima ricotta e le prime arance che sono talmente aspre da essere utilizzate in insalata come “levasdegnu”(si mangiano per alleggerire i sapori forti degli altri piatti, sperando in una buona digestione). Il pranzo si conclude con " i sfinci” di San Martino ( da non confondere con i sfinci di San Giuseppe) e i sammartinelli, biscotti tricotti e aromatizzati con semi di finocchio, inzuppati nel moscato di Pantelleria, dei quali esiste una versione più ricca ed elaborata: Sono biscotti più morbidi, cotti solo una volta e ripieni di marmellata, ricoperti di una glassa di zucchero e decorati con confetti e cioccolatini oppure ripieni di crema di ricotta.
 Che bella esperienza! Tornata a casa, raccontai la giornata scolastica con tanta enfasi da far divertire i miei fratelli. Finalmente arrivò la festa di San Martino e che quella giornata fosse speciale l’avevo capito fin dal mattino con il clima estivo che prometteva bene: Le mamme erano alle prese con la preparazione del tradizionale pranzo e anche la mia mamma, che si era informata presso la gentilissima signora del pianoterra, La Mantillina, si era cimentata con qualche pietanza, suscitando tanta curiosità: Il galletto “aggrassato” con le patate, molto buono e che mio padre, che era l’unico a conoscerne il gusto, aveva apprezzato molto. Noi bambini, dopo la cena, grazie alla festività, avevamo avuto il permesso di rimanere in cortile a giocare, oltre l’orario stabilito, aspettando gli “sfinci”, golose frittelle ricoperte di zucchero; mentre i maschietti giocavano a nascondino, noi bimbe cantavamo e ballavamo mentre il vento caldo africano ci accarezzava il volto e sollevava i nostri vestitini: Io imitavo le ballerine che vedevo volteggiare nei film musicali, a cui assistevo con la mia mamma. Da piccolissima, ascoltando la musica, mi movevo a tempo e con armonia e, con gli anni, il ballo é stato parte di me, mi ha permesso di esprimere, attraverso i movimenti del mio corpo, emozioni e soprattutto mi procurava felicità perché il ballo, uno strumento espressivo straordinario, ancora oggi, a settant’anni suonati, mi fa provare quelle "antiche" emozioni. Scusate la divagazione! Quando arrivarono “i sfinci”caldi e profumati fu veramente festa, come capita ancora oggi ogni volta che li preparo, facendomi ritornare emotivamente in quel cortile intenta a volteggiare, accarezzata dal vento. Vi propongo la ricetta perché sono certa che voi, ma soprattutto i bambini,  la apprezzerete molto.

Sfinci di San Martino ( frittelle )

Ingredienti
½ kg di grano duro, ½ kg di farina 00, 600 g. di patate lessate e passate, 100 g. di zucchero, 500 ml di latte tiepido, 2 cubetti di lievito da 25 g., il succo e la scorza  grattugiata di una arancia, zucchero e cannella per condire e 1litro e ½ di  olio di semi di arachide, padella con bordi molto alti.

Preparazione
Mettete, in un recipiente, le farine setacciate, le patate lessate e passate, 100 g. di zucchero, il succo e la scorza grattugiata dell’arancia. Sciogliete, nel latte tiepido, il lievito, aggiungetelo agli altri ingredienti e iniziate ad impastare, in maniera energica, fino ad ottenere un composto liscio, morbido ed omogeneo. Mettete il composto in una ciotola, molto capiente, coprite con panno e lasciate riposare e lievitare per un’ora. Quindi se, controllando l’impasto, si sono formate delle bolle è giunto il momento della frittura.
In una padella con i bordi alti, versate non meno di 1 litro e ½ di olio e quando sarà caldo, lasciatevi cadere con il cucchiaio ( dovete bagnarlo prima di prendere l’impasto) noci di impasto. Si formeranno tante frittelle rotonde che noi chiamiamo “sfinci”; aiutandovi con la schiumarola fate dorare uniformemente quindi scolatele e mettetele su uno scolapasta, coperto di carta da cucina assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Dopo la frittura di tutte le sfinci, passatele nello zucchero che, per chi amasse il gusto, può essere aromatizzato con la cannella. Sono buonissime, potete mangiarle anche il giorno dopo

giovedì 23 giugno 2016

L'estate: Favignana, Mondello e...........





E’ indelebile il ricordo della prima estate palermitana: Finalmente tutta la famiglia riunita, la campagna complice dei miei giochi e la scoperta del mare. Sì, proprio così, ho scoperto il mare, quel mare che mia madre riteneva pericoloso, “in mare non ci sono taverne”(ovvero il pericolo è sempre in agguato, non sempre si può contare su aiuti immediati) diceva, per giustificare la sua decisone. E alla continua richiesta dei  miei fratelli di vivere una giornata al mare con gli amichetti , mia madre confermava le sue preoccupazioni: “Io, diceva, non so nuotare e non potrei aiutarvi se foste in pericolo”, dimenticando di dire che lei non si esponeva al sole per le efelidi, che sarebbero comparse sul suo viso sarebbero state deleterie, per la sua immagine. 
Per anni, quindi, il nostro mare è stato il ruscello che attraversava la proprietà del nonno: Partivamo al mattino presto con una buona colazione e ci recavamo in campagna dove "lui" ci aspettava, pronto ad accoglierci, contento di stare un po’ con noi, durante la giornata.
Il mare invece per mio padre era vita! E fu infatti il suo primo regalo, comunicandoci che avremmo trascorso le vacanze estive a Favignana, nella villetta di famiglia, da cui si godeva uno spettacolo naturale straordinario, ma soprattutto che ci avrebbe aiutato a prendere confidenza con l’acqua: “Il mare, diceva, è affascinante nella sua immensità e per il mistero che nasconde; il suo odore , la sabbia sotto le dita, l’aria e il vento danno sensazioni uniche che, sono sicuro, scoprirete anche voi”.

Ero talmente felice a questa notizia che ero corsa a comunicarlo a tutti i miei compagni di gioco che a loro volta mi avevano raccontato della spiaggia frequentata con le loro famiglie e dei divertimenti allo stabilimento con gli amichetti del momento.  Papà, aspettando le ferie di agosto, spesso  ci portava a Mondello e precisamente allo stabilimento “Charleston”, costruito a palafitta sul mare, dove trascorrevamo la giornata: Giocavamo, prendevamo il sole, facevamo il bagno e a pranzo si andava al ristorante, per gustare pietanze gustose e poi si tornava a casa.
Anche se contenta, pensavo che i miei amici si divertivano di più ed io volevo stare con loro; quindi senza pensarci due volte sono andata a casa di Maria per chiedere alla sua mamma se potevo aggregarmi quando fossero andati al mare e la risposta mi aveva riempito di gioia: “Se la tua mamma è d’accordo perché no”. Tanta era stata la felicità nel comunicare a mia madre la disponibilità della mamma di Maria, quanta era stata la delusione per il suo netto no, senza possibilità di ripensamento, anche se motivato: "Devi alzarti troppo presto e, vivendo una giornata intensa al mare, ti stancheresti". Convinta che la motivazione fosse volutamente costruita, chiesi notizie alla signora di mia conoscenza, la Mantillina, che confermò quanto detto da mia madre: Le donne  si alzano alle quattro per friggere “i milinciani” per preparare la pasta al forno, con il salame, il formaggio a fette sottili e le uova e poi ancora le cotolette “pi picciriddi, picchì ca sula pasta un si sazianu”, e finalmente preparata la borsa frigo grande, con le bibite e le birre per gli adulti, verso le otto partono per il mare. Ha ragione la mamma, concluse, devi alzarti troppo presto ed è stancante, se devi trascorre la giornata al mare”. Quando  chiesi a mio padre di perorare la mia causa, la risposta fu chiara e immediata: “Quando la famiglia di Maria deciderà di trascorrere solo mezza giornata al mare, potrai andare.” Quanta felicità quel giorno!

Insieme a Maria e i suoi fratelli e i loro genitori andammo allo stabilimento di romagnolo, i bagni Virzì, molto diversi dal Charleston di Mondello: Le cabine, al cui interno avevano il sedile in muratura e un lavabo, si affacciavano su una balconata da dove, scendendo una scaletta, si arrivava al mare che era un misto di scogli e ciottoli. La mamma di Maria, in prendisole e non faceva il bagno, mi aveva aiutato ad indossare il costumino, mentre Maria e i suoi fratelli andavano in acqua in mutandine. Il loro papà aveva indossato un costume noleggiato sul posto  e ricordo come se fosse ora, sono passati più di sessant’anni, che il costume, di lana spessa e di misura più grande, uscendo dall’acqua si allungava, penzolando e il pover'uomo, con il petto nudo che mostrava il segno della canottiera, lasciato dai raggi del sole, sembrava un clown. Il tempo trascorreva velocemente ma eravamo felici, ammirando e godendo di quel mare con il suo colore azzurro e le acque cristalline: Quante rincorse, spruzzi  d’acqua e giochi in spiaggia con la sabbia e nascondino tra le cabine. Il nostro pranzo era stato il pane e frittata e pane e melanzane con una buona fetta di anguria che il papà di Maria aveva comprato, durante il tragitto per il mare;

mi aveva incuriosito il modo con cui il papà di Maria aveva scelto “u miluni”, la signora mi spiegò che “u miluni” deve essere scelto con cura e per questo il marito “tuppuliava”  - batteva con il pugno - sull'anguria e vi accostava l’orecchio per auscultare mentre noi lo guardavamo in religioso silenzio, per non disturbarlo.

Quando ho gustato quella fetta di miluni di un rosso vivo, dolce e gustosa, come si dice in Sicilia, “mi sono scialata”e, anche se sbrodolandomi avevo sporcato il vestito, ho chiuso in bellezza la mia esperienza.

domenica 12 giugno 2016

Cibo di strada..............segui il profumo



 Quando chiesi a mio padre cosa  vendesse l’ambulante che postava, tutti pomeriggi, la bancarella accanto al mercato ortofrutticolo, e perché quel cibo sprigionasse tanto fumo e strano odore, mi rispose che il venditore, preparava i ”stigghiola”, budella, attorcigliate attorno al prezzemolo e i cipollotti con sale e pepe, arrostiti nel suo “fucuni”, grande fornello metallico: E’ una pietanza apprezzata da molte famiglie, mi disse, le quali capivano che lo stigghiularu, così si chiamava il venditore, era pronto ad accogliere i clienti, proprio dall’odore (1) e dal fumo (2) che si levava alto nel cielo, durante la cottura. Quel piatto, aggiunse, era una tradizione antica(3), di origine greca, cucinato in molte città dell’isola, in cui questo popolo aveva lasciato traccia della sua presenza, che rappresentava, insieme a tante altre pietanze, il cibo di strada che i palermitani mangiavano con gusto. A stuzzicare l’appetito, disse,  c’è un lungo elenco di antipasti: Le arancine di riso, i cazzilli (squisite crocchette di patate), u pane cà meusa con due versione, “schietta” con una spruzzatina di limone e “maritata”, cioè sposata con la ricotta e caciocavallo, che in bocca diventa dolce e morbido e ancora lo sfincione, una grossa sfoglia di pasta condita con pomodoro, cipolla, acciughe e caciocavallo e le panelle, sfoglie sottili al punto da far dire di qualsiasi persona con poco spessore “pari na panella”.
Nascono come piatti poveri che una volta venivano consumati soprattutto da coloro che non potevano permettersi la carne e i pesci pregiati, disse, ed erano i buffittieri(4) che li vendevano su ripiani, piazzati per strada: Odori, profumi, sapori singolari, voci e le "abbanniate" del venditore, rappresentano la cucina di strada, una realtà consolidata, fatta di piatti semplici e popolari, specialità da consumarsi all'aperto, tra i vicoli e i mercati. Mio padre mi promise che mi avrebbe accompagnato in giro per la città, per vivere una nuova esperienza, io conoscevo quella catanese, per gustare il cibo di strada, percorrendo le vie , in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani. Quando gli chiesi quale sarebbe stato l’itinerario, lui sorridendo, mi rispose: Seguiremo il profumo! Faremo un viaggio nel gusto, un percorso a piedi tra piazze storiche e i mercati popolari, un itinerario che si snoda tra rosticcerie, pasticcerie, e venditori ambulanti, assaggiando il meglio della tradizione culinaria da strada. Partimmo dal teatro Massimo, per entrare al “Capo”, il mercato più vivo e più frequentato, diceva mio padre, dove c’era di tutto, cazzilli, panelle e le migliori arancine; ero affascinata  dallo spettacolo di colori e di suoni e anche dalla simpatia dei venditori che, gesticolando, ti chiamavano e ti invitavano ad assaggiare.
Mio padre mi consigliava di non fermarmi e proseguire il viaggio e giunti, in via Maqueda, in una piccola rosticceria ho, finalmente, assaggiato lo sfincione, morbido, gustoso e buonissimo, ero già sazia e anche stanca, speravo che il mio papà se ne accorgesse, ma non potevo deluderlo; ci incamminammo verso via Roma  e ci ritroviamo, scendendo alcuni gradini, alla “Vucciria,”: Questo è il cuore pulsante dei mercati cittadini, mi disse, dove sui banchi di pesce fresco puoi trovare anche u purpu bollito e i cicireddi, pesciolini fritti al momento, l’unico tipo di pesce che si può mangiare per strada”, nel “cuppiteddu” di carta; raggiungemmo l’ultima tappa, ero troppo stanca per continuare oltre e mio padre l’aveva capito, “Ballarò”, quartiere multietnico per eccellenza e il più antico, animato dai venditori delle cosiddette abbanniate ma anche con i segni di degrado e di abbandono perché il mercato si presentava come un ammasso di bancarelle, assiepate  e con la strada invasa da cassette di legno e tanta confusione, unico elemento positivo le primizie che arrivavano dalle campagne del palermitano. E la frutta era buonissima, mi aveva ricordato la campagna del nonno e i suoi gustosi e genuini prodotti della terra: Che bontà!
L’esperienza con il mio papà rimane unica come unici e gustosi sono i piatti di strada ma le panelle, la cui nascita sembra risalga alle sperimentazioni gastronomiche degli arabi, le preferisco in assoluto: Sono state la mia colazione scolastica e spesso le mie merende, quanto è lontano il ricordo della melanzana farcita, genuina e gustosa che mia madre mi preparava, a Paternò.
E mentre tornavamo a casa, mio padre mi parlò delle friggitorie e della loro evoluzione: Oggi sono dislocate in più parti della città e in locali mentre, in passato, il panellaro aveva solo un carretto su cui aveva montato un baracchino di legno chiuso da tre lati, al cui interno vi era un fornello in pietra lavica, sul quale era posta una grande padella utilizzata per la frittura, un ripiano in cui si mettevano in mostra, in piatti d’alluminio, le panelle già fritte, e un contenitore di latta con il coperchio bucherellato, per il sale e in un angolo si potevano intravvedere le mafalde, pagnotte  dalla caratteristica forma a serpentone ricoperte di cimino (sesamo); in seguito il carretto era stato sostituito dal caratteristico “lapino”, attrezzato per cuocere al momento le panelle e le crocchè e, anche se alcuni girano ancora per la città, sono stati sostituiti dalle attuali friggitorie.
Ricordo ancora quando al mattino, prima di andare a scuola, incontravo il mio panellaro, simpatico e generoso, tante volte mi aveva fatto credito e non aveva poi accettato i soldi. Quanto mi mancano le panelle! Quando posso le preparo, regalandole anche ad amici che hanno cominciato ad apprezzarle tanto da, provarci. Vi propongo la ricetta, nel caso voleste provarla.

I panelli
Ingredienti
200 g. di farina di ceci, ½ litro di acqua, prezzemolo, sale, pepe nero, olio di semi (io uso olio extravergine) mattarello, carta da forno, carta assorbente, tegame dal fondo spesso, padella capiente, dai bordi alti.
Preparazione
Sistemate la farina di ceci in una terrina e aggiungete l’acqua, un po’alla volta;  con una frusta da cucina, amalgamare bene tutto, girando fino ad ottenere un composto fluido e privo di grumi. Dopo averlo fatto riposare qualche minuto, versatelo in una pentola dal fondo alto e spesso per non fare attaccare il composto e accendete il fuoco, aggiungendo un pizzico di sale. Cuocete a fuoco alto per 10 minuti, mescolando di continuo fino a quando il composto non avrà una certa consistenza, quindi  abbassate la fiamma al minimo, lasciando cuocere per ancora 15/20 minuti, girando di tanto in tanto perché l’impasto non si attacchi al fondo. Aggiungete il prezzemolo tritato e un pizzico di pepe nero poco prima di ultimare la cottura.
A questo punto dovete essere lesti e fare in modo che il composto non si raffreddi, se ciò accadesse non si potrebbe più lavorare. Versate il composto intiepidito, su una superficie liscia o una tavola di legno inumidita, distribuitelo bene con una spatola o un coltello, bagnati, per ottenere uno strato sottile. Quindi ricoprite con la carta da forno il composto e spianate, usando un mattarello e quando si sarà indurito, togliete la carta da forno, tagliate, formando tanti rettangoli. Adesso potete friggere! Versate abbondante olio di semi ( io uso olio extravergine) in una padella capiente e dai bordi alti, accendete il fuoco e quando l’olio avrà raggiunto la giusta temperatura, immergete i rettangoli di panelle e fateli dorare da entrambi i lati, quindi poggiateli su un vassoi coperto da carta assorbente da cucina, salate e servite calde, (fredde perderebbero il gusto originale e se si prova a riscaldarle il risultato non è dei migliori), confermando il detto “Chianciri a panella” che sembra riferirsi al fatto che la panella calda è di certo difficile da mangiare senza scottarsi, ma ha un gusto particolare. Se aveste poco tempo e/o poca pazienza, fate un viaggetto a Palermo dove gusterete delle squisite panelle, godendo anche della visita di una città speciale e se il lavoro o altri impegni ve lo impedisce, potrete comprarle in alcune gastronomie di Torino: zona Mirafiori, via Livorno e via Cecchi.


(1)La cottura avviene sempre all’esterno, in quanto l’odore che sprigiona è forte e acre e di conseguenza difficilmente eliminabile.
(2)Effetto del grasso che cola sui carboni accesi, durante la cottura.
 (3) I romani ne fecero un vanto ( di quelle strutture, locali sempre aperti, rimangono importanti  vestigia a Pompei); lo scrittore Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi:” Non più fiaschi appesi ai pilastri…..barbieri, friggitore, norcino…….Ora c’è  Roma, prima era un casino.” Ma che attualità!!
(4) Dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti serviti su un ripiano.

venerdì 10 giugno 2016

Ed ecco nonno Nino, il compagno di viaggio della mia infanzia

Quando io e la mamma tornammo a Paternò, per dare l’estremo saluto a nonno Nino, la zia ci raccontò che, durante la malattia, continuava a chiamare, Milia, Milia, non è mai riuscito a pronunciare correttamente il mio nome, chiedendo continuamente quando sarei arrivata.
Ero molto triste e rammaricata di non aver potuto salutare e abbracciare il mio compagno di chiacchiere e di racconti, come lo consideravo, e la zia, rincuorandomi, mi disse: Gli siamo stati accanto fino alla fine, dandogli serenità e amore e tanta attenzione; lo abbiamo rasserenato anche quando chiedeva la tua presenza, assicurandogli che saresti arrivata presto. Prima di ripartire, siamo tornate in campagna dove avevo trascorso tante belle estati e che rappresentava il mondo semplice e genuino che il mio nonno ci aveva fatto amare e poi ci dirigiamo verso la stazione, per ritornare a palermo.
Prima di salire sul treno, la zia mi restituì la letterina che avevo inviato al nonno qualche mese dopo il mio trasferimento, dicendomi che il mio compagno di viaggio l'aveva custodita gelosamente, sotto il cuscino. In quella letterina, che purtroppo non ho più e che avevo letto e riletto tante volte, immagino di avere scritto così : “Caro nonnino mi trovo in un posto un po’ bello, il nostro lo è di più; non c’è l’acqua rossa che sgorga dalla roccia, né l’orto dove raccoglievo la verdura e i legumi con i quali la mamma cucinava tanti buoni piatti e non ci sei tu che mi vuoi bene e mi pensi sempre. Non essere triste, io verrò presto a trovarti per stare tanto tempo con te e ascoltare i racconti che mi piacciono tanto. Quando mi prende la nostalgia, mangio qualcosa che mi ricorda la nostra campagna e i prodotti genuini della buona terra.
Ti ricordi quante volte ti ho aiutato a portare in casa la frutta fresca e quando partecipavo alla raccolta delle olive ? Nel paesino in cui vivo adesso tutto la realtà é dicersa, siamo in periferia, all'aperto con tante piante di agrumi e tanti alberi da frutta, come nella villa settecentesca abbandonata che insieme ad altri bambini, vado ad esplorare.." E se potessi continuare quella lettera, aggiungerei: "Caro nonnino, mi ricordo che papà, quando avevo nostalgia del mio paesino e di te, mi diceva che la memoria è il compagno più caro di ogni persona, che permette di mantenere vivo il senso di appartenenza, rimanendo legati al cordone ombelicale della propria terra d’origine; è come il cibo, diceva, che racconta sempre una storia, ed è un mezzo di comunicazione non verbale che aiuta a mantenere vivi le proprie tradizioni e  mediare le culture diverse". E’ proprio vero! Quando a tavola trovo “l’alivi cunsati”, mi rivedo nella piccola via del nostro paesino, vedo il mio nonnino e il suo ciuco, i prodotti della terra nelle sacche e i cesti di olive appena raccolte e il lavoro di preparazione per farli diventare un buon antipasto, nella nostra tavola. Nonno ti voglio tanto bene e mi manchi, mio compagno di giochi”. Ciao, la tua nipotina Milia.

Mentre il treno mi portava verso casa, pensavo a quanto affetto, valori e tradizioni mi ha regalato nonno Nino, l'amore per il mondo contadino e i buoni piatti che mi accompagnano ancora oggi. Da quasi cinquant'anni, preparo “l’alivi cunsati”che, oltre ad essere un ottimo antipasto, è  un omaggio all’uomo che mi parlava della terra, del rispetto e della cura per preservarla: ” Lu patri si nni va la roba resta”( l’uomo muore, la terra rimane) diceva sempre. E mi capita spesso di rivivere le emozioni antiche e di rivedermi bambina mentre tento di raccogliere le olive, mentre ascolto il canto delle donne che fanno la raccolta e mentre il mio nonnino mi solleva perché possa raggiungere i rami più alti.
Quasi in tutte le case siciliane è ancora tradizione preparare le olive verdi schiacciate e condite, per esaltarne il gusto e se ne preparano in abbondanza, per regalarli anche ai parenti. E’ una ricetta tipica del periodo della raccolta delle olive, solitamente fine settembre /novembre. Prima di raccogliere tutte le olive per la molitura, ne viene anticipata una, scegliendo solo quelle più grosse e prive di imperfezione, proprio per avere un ottimo ingrediente per la ricetta. Provate anche voi a preparare “l’alivi cunsati”, vi assicuro che sono di facile preparazione (a Torino potrete trovarli, tra ottobre/novembre, al mercato di Porta Palazzo) e sono un ottimo antipasto.
Alivi scacciati, alivi cunzati
Prima di cominciare le operazioni vi conviene indossare un grande grembiule per evitare schizzi di olio e macchie difficili da eliminare.
Ingredienti
1 kg. di olive verdi, fresche e senza imperfezioni, olio extravergine, origano, secondo il vostro gusto, 2 peperoncini rossi, spicchio d’aglio, sale, tagliere, batticarne, sasso o un martello ( è lo strumento che uso io)

Preparazione
Lavate le olive per eliminare impurità e terra e su un tagliere di legno, con un batticarne o sasso ( io uso il martello), date un colpo secco ad ogni oliva. Mettete le olive schiacciate in un contenitore capiente e versate del'acqua bollente per circa 3 minuti, non superateli perché renderebbero le olive molli, quindi scolate e versatevi sopra dell' acqua fredda con un cucchiaio raso di sale grosso per per 4 -5 giorni, avendo cura di cambiare l’acqua due/tre volte al giorno, sempre aggiungendo del sale grosso. Trascorsi i giorni stabiliti, assaggiate per sentire se l’amaro sia stato eliminato, scolate le olive e sciacquatele bene e asciugatele con cura con della carta assorbente, da cucina,. 
Adesso procedete al condimento: Prima di mettere le olive in un contenitore di vetro, se volete conservarle, preparatele in un piatto, aggiungendo due spicchi d’aglio (interi o a fettine sottili), i peperoncini piccanti, origano e abbondante olio e mescolate molto bene, per fare insaporire.  Ricordate che le olive condite si possono mangiare subito ma se li fate insaporire un paio di giorni,  è tutta un’altra cosa: Sentirete che profumo!