domenica 12 giugno 2016

Cibo di strada..............segui il profumo



 Quando chiesi a mio padre cosa  vendesse l’ambulante che postava, tutti pomeriggi, la bancarella accanto al mercato ortofrutticolo, e perché quel cibo sprigionasse tanto fumo e strano odore, mi rispose che il venditore, preparava i ”stigghiola”, budella, attorcigliate attorno al prezzemolo e i cipollotti con sale e pepe, arrostiti nel suo “fucuni”, grande fornello metallico: E’ una pietanza apprezzata da molte famiglie, mi disse, le quali capivano che lo stigghiularu, così si chiamava il venditore, era pronto ad accogliere i clienti, proprio dall’odore (1) e dal fumo (2) che si levava alto nel cielo, durante la cottura. Quel piatto, aggiunse, era una tradizione antica(3), di origine greca, cucinato in molte città dell’isola, in cui questo popolo aveva lasciato traccia della sua presenza, che rappresentava, insieme a tante altre pietanze, il cibo di strada che i palermitani mangiavano con gusto. A stuzzicare l’appetito, disse,  c’è un lungo elenco di antipasti: Le arancine di riso, i cazzilli (squisite crocchette di patate), u pane cà meusa con due versione, “schietta” con una spruzzatina di limone e “maritata”, cioè sposata con la ricotta e caciocavallo, che in bocca diventa dolce e morbido e ancora lo sfincione, una grossa sfoglia di pasta condita con pomodoro, cipolla, acciughe e caciocavallo e le panelle, sfoglie sottili al punto da far dire di qualsiasi persona con poco spessore “pari na panella”.
Nascono come piatti poveri che una volta venivano consumati soprattutto da coloro che non potevano permettersi la carne e i pesci pregiati, disse, ed erano i buffittieri(4) che li vendevano su ripiani, piazzati per strada: Odori, profumi, sapori singolari, voci e le "abbanniate" del venditore, rappresentano la cucina di strada, una realtà consolidata, fatta di piatti semplici e popolari, specialità da consumarsi all'aperto, tra i vicoli e i mercati. Mio padre mi promise che mi avrebbe accompagnato in giro per la città, per vivere una nuova esperienza, io conoscevo quella catanese, per gustare il cibo di strada, percorrendo le vie , in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani. Quando gli chiesi quale sarebbe stato l’itinerario, lui sorridendo, mi rispose: Seguiremo il profumo! Faremo un viaggio nel gusto, un percorso a piedi tra piazze storiche e i mercati popolari, un itinerario che si snoda tra rosticcerie, pasticcerie, e venditori ambulanti, assaggiando il meglio della tradizione culinaria da strada. Partimmo dal teatro Massimo, per entrare al “Capo”, il mercato più vivo e più frequentato, diceva mio padre, dove c’era di tutto, cazzilli, panelle e le migliori arancine; ero affascinata  dallo spettacolo di colori e di suoni e anche dalla simpatia dei venditori che, gesticolando, ti chiamavano e ti invitavano ad assaggiare.
Mio padre mi consigliava di non fermarmi e proseguire il viaggio e giunti, in via Maqueda, in una piccola rosticceria ho, finalmente, assaggiato lo sfincione, morbido, gustoso e buonissimo, ero già sazia e anche stanca, speravo che il mio papà se ne accorgesse, ma non potevo deluderlo; ci incamminammo verso via Roma  e ci ritroviamo, scendendo alcuni gradini, alla “Vucciria,”: Questo è il cuore pulsante dei mercati cittadini, mi disse, dove sui banchi di pesce fresco puoi trovare anche u purpu bollito e i cicireddi, pesciolini fritti al momento, l’unico tipo di pesce che si può mangiare per strada”, nel “cuppiteddu” di carta; raggiungemmo l’ultima tappa, ero troppo stanca per continuare oltre e mio padre l’aveva capito, “Ballarò”, quartiere multietnico per eccellenza e il più antico, animato dai venditori delle cosiddette abbanniate ma anche con i segni di degrado e di abbandono perché il mercato si presentava come un ammasso di bancarelle, assiepate  e con la strada invasa da cassette di legno e tanta confusione, unico elemento positivo le primizie che arrivavano dalle campagne del palermitano. E la frutta era buonissima, mi aveva ricordato la campagna del nonno e i suoi gustosi e genuini prodotti della terra: Che bontà!
L’esperienza con il mio papà rimane unica come unici e gustosi sono i piatti di strada ma le panelle, la cui nascita sembra risalga alle sperimentazioni gastronomiche degli arabi, le preferisco in assoluto: Sono state la mia colazione scolastica e spesso le mie merende, quanto è lontano il ricordo della melanzana farcita, genuina e gustosa che mia madre mi preparava, a Paternò.
E mentre tornavamo a casa, mio padre mi parlò delle friggitorie e della loro evoluzione: Oggi sono dislocate in più parti della città e in locali mentre, in passato, il panellaro aveva solo un carretto su cui aveva montato un baracchino di legno chiuso da tre lati, al cui interno vi era un fornello in pietra lavica, sul quale era posta una grande padella utilizzata per la frittura, un ripiano in cui si mettevano in mostra, in piatti d’alluminio, le panelle già fritte, e un contenitore di latta con il coperchio bucherellato, per il sale e in un angolo si potevano intravvedere le mafalde, pagnotte  dalla caratteristica forma a serpentone ricoperte di cimino (sesamo); in seguito il carretto era stato sostituito dal caratteristico “lapino”, attrezzato per cuocere al momento le panelle e le crocchè e, anche se alcuni girano ancora per la città, sono stati sostituiti dalle attuali friggitorie.
Ricordo ancora quando al mattino, prima di andare a scuola, incontravo il mio panellaro, simpatico e generoso, tante volte mi aveva fatto credito e non aveva poi accettato i soldi. Quanto mi mancano le panelle! Quando posso le preparo, regalandole anche ad amici che hanno cominciato ad apprezzarle tanto da, provarci. Vi propongo la ricetta, nel caso voleste provarla.

I panelli
Ingredienti
200 g. di farina di ceci, ½ litro di acqua, prezzemolo, sale, pepe nero, olio di semi (io uso olio extravergine) mattarello, carta da forno, carta assorbente, tegame dal fondo spesso, padella capiente, dai bordi alti.
Preparazione
Sistemate la farina di ceci in una terrina e aggiungete l’acqua, un po’alla volta;  con una frusta da cucina, amalgamare bene tutto, girando fino ad ottenere un composto fluido e privo di grumi. Dopo averlo fatto riposare qualche minuto, versatelo in una pentola dal fondo alto e spesso per non fare attaccare il composto e accendete il fuoco, aggiungendo un pizzico di sale. Cuocete a fuoco alto per 10 minuti, mescolando di continuo fino a quando il composto non avrà una certa consistenza, quindi  abbassate la fiamma al minimo, lasciando cuocere per ancora 15/20 minuti, girando di tanto in tanto perché l’impasto non si attacchi al fondo. Aggiungete il prezzemolo tritato e un pizzico di pepe nero poco prima di ultimare la cottura.
A questo punto dovete essere lesti e fare in modo che il composto non si raffreddi, se ciò accadesse non si potrebbe più lavorare. Versate il composto intiepidito, su una superficie liscia o una tavola di legno inumidita, distribuitelo bene con una spatola o un coltello, bagnati, per ottenere uno strato sottile. Quindi ricoprite con la carta da forno il composto e spianate, usando un mattarello e quando si sarà indurito, togliete la carta da forno, tagliate, formando tanti rettangoli. Adesso potete friggere! Versate abbondante olio di semi ( io uso olio extravergine) in una padella capiente e dai bordi alti, accendete il fuoco e quando l’olio avrà raggiunto la giusta temperatura, immergete i rettangoli di panelle e fateli dorare da entrambi i lati, quindi poggiateli su un vassoi coperto da carta assorbente da cucina, salate e servite calde, (fredde perderebbero il gusto originale e se si prova a riscaldarle il risultato non è dei migliori), confermando il detto “Chianciri a panella” che sembra riferirsi al fatto che la panella calda è di certo difficile da mangiare senza scottarsi, ma ha un gusto particolare. Se aveste poco tempo e/o poca pazienza, fate un viaggetto a Palermo dove gusterete delle squisite panelle, godendo anche della visita di una città speciale e se il lavoro o altri impegni ve lo impedisce, potrete comprarle in alcune gastronomie di Torino: zona Mirafiori, via Livorno e via Cecchi.


(1)La cottura avviene sempre all’esterno, in quanto l’odore che sprigiona è forte e acre e di conseguenza difficilmente eliminabile.
(2)Effetto del grasso che cola sui carboni accesi, durante la cottura.
 (3) I romani ne fecero un vanto ( di quelle strutture, locali sempre aperti, rimangono importanti  vestigia a Pompei); lo scrittore Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi:” Non più fiaschi appesi ai pilastri…..barbieri, friggitore, norcino…….Ora c’è  Roma, prima era un casino.” Ma che attualità!!
(4) Dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti serviti su un ripiano.

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