Quando il primo ottobre entrai nella mia nuova classe, tante
bambine mi guardavano con la stessa curiosità con cui scrutavano la nuova
insegnante, anche Lei appena arrivata dal “continente”, in seguito al
trasferimento del marito. La maestra Maglienti, così si chiamava, si rivelò
molto severa ma anche molto disponibile e attenta verso ognuna di noi che,
provenendo da famiglie con grande disparità economica, sociale e soprattutto
culturale, aveva bisogno di particolare attenzione.
Capitava spesso che, durante la lezione, la maestra, penso curiosa di conoscere la città che la ospitava attraverso il racconto dei locali, ci invitasse a parlare delle nostre tradizioni e usanze che rendevano Palermo e la Sicilia affascinanti, stimolando la gara tra noi alunne, gara che si accentuò il giorno in cui ci chiese di raccogliere notizie sulle tradizioni e i piatti tipici della festa di San Martino, che si sarebbe festeggiata pochi giorni dopo. Ero contenta, incuriosita e particolarmente stimolata dalla novità, che mi permetteva anche di conoscere meglio le mie compagne; ma che lavoro per la mia mamma che, disponibile e paziente perché ero lenta nello scrivere, mi dettava le notizie, facendomele ripetere più volte mentre aspettavo con ansia di raccontarle alla maestra che a scuola, il giorno dopo, lodandoci per i nostri lavori, organizzò gli interventi. Gloria lesse i proverbi, “A san martinu ogni mustu è vinu”, “è l’estate di San Martino”, espressione la prima che ricorda che in questo giorno si spilla la botte e si assaggia il vino e che l’11 novembre è conosciuto in Sicilia come l’ultimo giorno d’estate, aggiungendo che durante questa giornata, i bambini passeggiavano per le vie, portando vassoi e cesti, ornati da tovaglie splendidamente ricamate che contenevano oltre al regalo, dolciumi e soprattutto i “panuzzi di San Martino”. Luisa descrisse il Santo come era rappresentato nelle raffigurazioni sacre, con armatura, mantello e spada, in sella ad un cavallo bianco. Maria, impaziente, la interruppe per raccontare la tradizione a Palazzo Adriano, una località in provincia di Palermo, dove si ripeteva un’antica usanza che vedeva come protagonisti i novelli sposi che ricevavano dai loro parenti e dai loro amici cibo, accessori utili per la casa e una fornitura del necessario per affrontare l’inverno. Quando la maestra, mi chiese di parlare delle usanze catanesi, risposi che la festività, così mi disse la mia mamma, si svolgeva in tono minore, gustando il vino accompagnato da qualche focaccia: In una frazione del paese di Milo, si assaggiano salsicce con caliceddi ( verdura selvatica che nasce solo alle falde dell’Etna), castagne e vino, cannoli alla ricotta, torte fatte in casa e castagne, mentre ad Aci Bonaccorsi si mangiano i carduni, la mostarda di fichidindia e si beve il vino novello, con il quale si fanno delle gare di bevute, mentre a Trapani, me lo raccontò mio padre, in questo giorno si mangiano le “muffulette”, focacce condite con semi di finocchio e ricotta, accompagnate da un bicchiere di vino rosso. A Loredana, la nonna aveva raccontato che il culto era arrivato a Palermo con i Normanni e che la ricorrenza si festeggiava in due giorni diversi: Quella dei ricchi, l’11 novembre, e quella dei poveri la prima domenica successiva, perché per poter imbandire la propria tavola, molte famiglie dovevano attendere la paga settimanale, ma che i ricchi e i poveri mantenevano un’usanza in comune, “abbagnavano nnù muscatu” (inzuppavano nel moscato) il tradizionale biscotto di San Martino detto Sammartinello.
Capitava spesso che, durante la lezione, la maestra, penso curiosa di conoscere la città che la ospitava attraverso il racconto dei locali, ci invitasse a parlare delle nostre tradizioni e usanze che rendevano Palermo e la Sicilia affascinanti, stimolando la gara tra noi alunne, gara che si accentuò il giorno in cui ci chiese di raccogliere notizie sulle tradizioni e i piatti tipici della festa di San Martino, che si sarebbe festeggiata pochi giorni dopo. Ero contenta, incuriosita e particolarmente stimolata dalla novità, che mi permetteva anche di conoscere meglio le mie compagne; ma che lavoro per la mia mamma che, disponibile e paziente perché ero lenta nello scrivere, mi dettava le notizie, facendomele ripetere più volte mentre aspettavo con ansia di raccontarle alla maestra che a scuola, il giorno dopo, lodandoci per i nostri lavori, organizzò gli interventi. Gloria lesse i proverbi, “A san martinu ogni mustu è vinu”, “è l’estate di San Martino”, espressione la prima che ricorda che in questo giorno si spilla la botte e si assaggia il vino e che l’11 novembre è conosciuto in Sicilia come l’ultimo giorno d’estate, aggiungendo che durante questa giornata, i bambini passeggiavano per le vie, portando vassoi e cesti, ornati da tovaglie splendidamente ricamate che contenevano oltre al regalo, dolciumi e soprattutto i “panuzzi di San Martino”. Luisa descrisse il Santo come era rappresentato nelle raffigurazioni sacre, con armatura, mantello e spada, in sella ad un cavallo bianco. Maria, impaziente, la interruppe per raccontare la tradizione a Palazzo Adriano, una località in provincia di Palermo, dove si ripeteva un’antica usanza che vedeva come protagonisti i novelli sposi che ricevavano dai loro parenti e dai loro amici cibo, accessori utili per la casa e una fornitura del necessario per affrontare l’inverno. Quando la maestra, mi chiese di parlare delle usanze catanesi, risposi che la festività, così mi disse la mia mamma, si svolgeva in tono minore, gustando il vino accompagnato da qualche focaccia: In una frazione del paese di Milo, si assaggiano salsicce con caliceddi ( verdura selvatica che nasce solo alle falde dell’Etna), castagne e vino, cannoli alla ricotta, torte fatte in casa e castagne, mentre ad Aci Bonaccorsi si mangiano i carduni, la mostarda di fichidindia e si beve il vino novello, con il quale si fanno delle gare di bevute, mentre a Trapani, me lo raccontò mio padre, in questo giorno si mangiano le “muffulette”, focacce condite con semi di finocchio e ricotta, accompagnate da un bicchiere di vino rosso. A Loredana, la nonna aveva raccontato che il culto era arrivato a Palermo con i Normanni e che la ricorrenza si festeggiava in due giorni diversi: Quella dei ricchi, l’11 novembre, e quella dei poveri la prima domenica successiva, perché per poter imbandire la propria tavola, molte famiglie dovevano attendere la paga settimanale, ma che i ricchi e i poveri mantenevano un’usanza in comune, “abbagnavano nnù muscatu” (inzuppavano nel moscato) il tradizionale biscotto di San Martino detto Sammartinello.
Ma qual era il pranzo della festa, chiese la maestra a
Rossana: Da sempre si inizia con gli anelletti al forno, poi con “u adduzzu
agglassatu”( galletto) con le patate, i primi cavolfiori affogati, la prima
ricotta e le prime arance che sono talmente aspre da essere utilizzate in
insalata come “levasdegnu”(si mangiano per alleggerire i sapori forti degli
altri piatti, sperando in una buona digestione). Il pranzo si conclude con " i sfinci” di San Martino ( da non confondere con i sfinci di San Giuseppe) e i
sammartinelli, biscotti tricotti e aromatizzati con semi di finocchio,
inzuppati nel moscato di Pantelleria, dei quali esiste una versione più ricca
ed elaborata: Sono biscotti più morbidi, cotti solo una volta e ripieni di marmellata,
ricoperti di una glassa di zucchero e decorati con confetti e cioccolatini
oppure ripieni di crema di ricotta.
Che bella esperienza! Tornata a casa, raccontai la giornata scolastica con tanta enfasi da far divertire i miei fratelli. Finalmente arrivò la festa di San Martino e che quella giornata fosse speciale l’avevo capito fin dal mattino con il clima estivo che prometteva bene: Le mamme erano alle prese con la preparazione del tradizionale pranzo e anche la mia mamma, che si era informata presso la gentilissima signora del pianoterra, La Mantillina, si era cimentata con qualche pietanza, suscitando tanta curiosità: Il galletto “aggrassato” con le patate, molto buono e che mio padre, che era l’unico a conoscerne il gusto, aveva apprezzato molto. Noi bambini, dopo la cena, grazie alla festività, avevamo avuto il permesso di rimanere in cortile a giocare, oltre l’orario stabilito, aspettando gli “sfinci”, golose frittelle ricoperte di zucchero; mentre i maschietti giocavano a nascondino, noi bimbe cantavamo e ballavamo mentre il vento caldo africano ci accarezzava il volto e sollevava i nostri vestitini: Io imitavo le ballerine che vedevo volteggiare nei film musicali, a cui assistevo con la mia mamma. Da piccolissima, ascoltando la musica, mi movevo a tempo e con armonia e, con gli anni, il ballo é stato parte di me, mi ha permesso di esprimere, attraverso i movimenti del mio corpo, emozioni e soprattutto mi procurava felicità perché il ballo, uno strumento espressivo straordinario, ancora oggi, a settant’anni suonati, mi fa provare quelle "antiche" emozioni. Scusate la divagazione! Quando arrivarono “i sfinci”caldi e profumati fu veramente festa, come capita ancora oggi ogni volta che li preparo, facendomi ritornare emotivamente in quel cortile intenta a volteggiare, accarezzata dal vento. Vi propongo la ricetta perché sono certa che voi, ma soprattutto i bambini, la apprezzerete molto.
Che bella esperienza! Tornata a casa, raccontai la giornata scolastica con tanta enfasi da far divertire i miei fratelli. Finalmente arrivò la festa di San Martino e che quella giornata fosse speciale l’avevo capito fin dal mattino con il clima estivo che prometteva bene: Le mamme erano alle prese con la preparazione del tradizionale pranzo e anche la mia mamma, che si era informata presso la gentilissima signora del pianoterra, La Mantillina, si era cimentata con qualche pietanza, suscitando tanta curiosità: Il galletto “aggrassato” con le patate, molto buono e che mio padre, che era l’unico a conoscerne il gusto, aveva apprezzato molto. Noi bambini, dopo la cena, grazie alla festività, avevamo avuto il permesso di rimanere in cortile a giocare, oltre l’orario stabilito, aspettando gli “sfinci”, golose frittelle ricoperte di zucchero; mentre i maschietti giocavano a nascondino, noi bimbe cantavamo e ballavamo mentre il vento caldo africano ci accarezzava il volto e sollevava i nostri vestitini: Io imitavo le ballerine che vedevo volteggiare nei film musicali, a cui assistevo con la mia mamma. Da piccolissima, ascoltando la musica, mi movevo a tempo e con armonia e, con gli anni, il ballo é stato parte di me, mi ha permesso di esprimere, attraverso i movimenti del mio corpo, emozioni e soprattutto mi procurava felicità perché il ballo, uno strumento espressivo straordinario, ancora oggi, a settant’anni suonati, mi fa provare quelle "antiche" emozioni. Scusate la divagazione! Quando arrivarono “i sfinci”caldi e profumati fu veramente festa, come capita ancora oggi ogni volta che li preparo, facendomi ritornare emotivamente in quel cortile intenta a volteggiare, accarezzata dal vento. Vi propongo la ricetta perché sono certa che voi, ma soprattutto i bambini, la apprezzerete molto.
Sfinci di San Martino
( frittelle )
Ingredienti
½ kg di grano duro, ½ kg di farina 00, 600 g. di patate lessate e
passate, 100 g.
di zucchero, 500 ml di latte tiepido, 2 cubetti di lievito da 25 g., il succo e la
scorza grattugiata di una arancia,
zucchero e cannella per condire e 1litro e ½ di
olio di semi di arachide, padella con bordi molto alti.
Preparazione
Mettete, in un recipiente, le farine setacciate, le patate
lessate e passate, 100 g.
di zucchero, il succo e la scorza grattugiata dell’arancia. Sciogliete, nel
latte tiepido, il lievito, aggiungetelo agli altri ingredienti e iniziate ad
impastare, in maniera energica, fino ad ottenere un composto liscio, morbido ed
omogeneo. Mettete il composto in una ciotola, molto capiente, coprite con panno e lasciate
riposare e lievitare per un’ora. Quindi se, controllando l’impasto, si sono
formate delle bolle è giunto il momento della frittura.
In una padella con i bordi alti, versate non meno di 1 litro e ½ di olio e quando sarà caldo, lasciatevi cadere con il cucchiaio ( dovete bagnarlo prima di prendere l’impasto) noci di impasto. Si formeranno tante frittelle rotonde che noi chiamiamo “sfinci”; aiutandovi con la schiumarola fate dorare uniformemente quindi scolatele e mettetele su uno scolapasta, coperto di carta da cucina assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Dopo la frittura di tutte le sfinci, passatele nello zucchero che, per chi amasse il gusto, può essere aromatizzato con la cannella. Sono buonissime, potete mangiarle anche il giorno dopo
In una padella con i bordi alti, versate non meno di 1 litro e ½ di olio e quando sarà caldo, lasciatevi cadere con il cucchiaio ( dovete bagnarlo prima di prendere l’impasto) noci di impasto. Si formeranno tante frittelle rotonde che noi chiamiamo “sfinci”; aiutandovi con la schiumarola fate dorare uniformemente quindi scolatele e mettetele su uno scolapasta, coperto di carta da cucina assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Dopo la frittura di tutte le sfinci, passatele nello zucchero che, per chi amasse il gusto, può essere aromatizzato con la cannella. Sono buonissime, potete mangiarle anche il giorno dopo
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