giovedì 7 luglio 2016

La cuccìa, simbolo di religiosità

Erano passati pochi giorni dalla ricorrenza dell’Immacolata ed eravamo pronti a partecipare a un’altra festa religiosa e soprattutto culinaria, così la definì mia sorella, la festa di Santa Lucia.
Decisa a saperne di più sul rapporto tra la festività e il cibo, Agnese chiese altre notizie alla nonna della sua amica Amalia, quasi novantenne, che, meravigliata e nello stesso tempo compiaciuta, invitandola a sedersi, le raccontò la storia di Santa Lucia: Con un miracolo, dice, libera la Sicilia dalla carestia, facendo arrivare un bastimento di grano a Siracusa, sua città natale e i siciliani, che per diversi mesi hanno sofferto la fame, non aspettano di macinare il grano ma lo cucinano così com'è, aggiungendo solo un filo d’olio, per sfamarsi subito, dando vita al piatto della “cuccìa”(1) che da quel momento in poi è associata alla festa della santa, come penitenza e devozione di quegli eventi.
Con il passare del tempo, continuò la nonnina, quello che doveva essere una penitenza, digiunando, diviene il giorno in cui si mangia di più, trasformando il 13 dicembre in un’occasione, per tanti golosi palermitani, che non mangiando né pane né pasta, si rimpizzano con pietanze gustose e sempre più elaborate: Ceci lessati e conditi con il vino cotto, le panelle fritte e anche dolci, farcite con crema di ricotta o di uovo all'inglese, legumi e verdure a cui si aggiunse il riso, altro cereale a forma di chicco, che, consumato prima soltanto bollito, venne sempre più elaborato fino ad arrivare all'arancina, ripiena di carne tritata al ragù. La stessa trasformazione l'ha avuta la cuccìa, sospirò con nostalgia la nonnina, il grano bollito con olio diventò un dolce squisito con l’aggiunta di crema di ricotta, zucchero, cioccolato fondente, zuccata e altro ancora. Tutti i panifici della città, per la ricorrenza, come avrai notato, continua la nonna, rimangono chiusi e a prenderne il posto sono le numerose friggitorie, sia quelle stabili che gli ambulanti, a cui si rivolgono tanti avventori. Mia sorella, ringraziandola, le spiegò che la domanda aveva lo scopo di capire se il palermitano, della festività, privilegiava l'aspetto culinario. E la nonna, che l’aveva ascoltata con interesse, le confermò che tutte le feste religiose palermitane, in effetti, erano caratterizzate da piatti e dolci tipici che ne erano il sinonimo : “U fistinu non è tale senza u sfinciuni e u pani ca meusa, disse, la festa di san Martino senza i sammartinelli, l’Immacolata senza i viscotti ca gigiulena, santa Lucia senza a cuccia, le arancine, i panelli, il Natale senza i buccellati ecc., non c’è festa religiosa o patronale che non venga coronata da un dolce tradizionale”. Sembrava che la  nonnina  avesse appagato la curiosità della mia sorellina, ma non era così perché a tavola, dopo qualche giorno, mia sorella, comunicò a mio padre che finalmente aveva completato la sua ricerca dopo la chiacchierata con il suo professore d’italiano, frequentava la quarta ginnasio, che disponibile tentò di spiegarle il rapporto tra religiosità e cibo in Sicilia: Nell’isola, disse l’insegnante, ogni festa si celebra a tavola e il legame tra la preparazione dei piatti tipici e dei dolci e la funzione religiosa è molto profonda. Partendo da qualsiasi pietanza o dolce,  si possono fare collegamenti con la storia, la mitologia ma soprattutto con la religione e la chiesa, offrendo la propria tradizione per ravvivare la spiritualità dei fedeli, avvolge le usanze pagane di religiosità, facendo sì che le pietanze e i dolci, sganciati dal significato originario di alimento, contribuiscano simbolicamente a rafforzare, attraverso i riti, la devozione. La spiritualità, che accompagna la religiosità dei siciliani, è la stessa in tutta l’isola, conclude il professore, ma è vissuta nei modi più diversi, seguendo le tradizioni familiari, la cultura e la sensibilità di ogni fedele.
E finalmente soddisfatta, mia sorella, comunicando ai miei genitori che avrebbe fatto proprie “anche” le tradizioni palermitane, chiese di poter gustare la famosa “cuccìa”, simbolo di quella religiosità che fa di ogni piatto la storia di un santo e di un territorio.
Vi presento la ricetta di questo piatto, la cui preparazione è quasi un rito nelle famiglie siciliane, sperando che vogliate prepararla e sentirne la gradevolezza e il gusto antico.

“A cuccìa”

Ingredienti
Grano tenero 500 g., una presa di sale, una punta di bicarbonato.
Tenere il grano in acqua per tre giorni, avendo cura di cambiare l’acqua ogni 24 ore. Quindi sciacquare il grano in acqua corrente e lessarlo in acqua abbondante con una presa di sale e una punta di bicarbonato e fa cuocere per circa 3 h. a fiamma bassissima. Fare raffreddare nella stessa sua acqua di cottura per tutta la notte, quindi scolarlo bene e condirlo.
Crema di ricotta: 800 g. di ricotta, 300 g. di zucchero, 100 g. di gocce di cioccolato fondente, 100 g. di frutta candita, cannella in polvere, granelli di pistacchio (preferibilmente di Bronte).

Mettete la ricotta con lo zucchero in una terrina abbastanza capiente e lavorate con le fruste. Lasciate riposare per 30 minuti quindi aggiungete il cioccolato fondente e la frutta candita a pezzetti e mescolate.
Preparazione della Cuccìa
Al grano cotto aggiungete la crema di ricotta, amalgamando bene e poi servite in piccole ciotole, spolverate di cannella e cospargete di granella di pistacchio.


(1) Il nome cuccìa viene dal sostantivo cocciu, cioè chicco o dal verbo cucciari, vale a dire mangiare un chicco. Il siciliano Joseph Vinci, ne ”Etymologicum Siculum del 1759, nella parola cuccìa, vide la parola greca còccos, equivalente al termine latino granum.

Notizie sull’origine della “cuccìa”
E’ una pietanza sicuramente molto antica che i conquistatori musulmani ci hanno tramandato: In alcune città arabe, come Tunisi o Città del Cairo, è possibile assaggiare, ancora oggi, una pietanza Kech o Kesh, constituita da grano bollito, addolcito da latte di pecora o di cammello, associato a vaniglia e cannella.
La cuccìa risulta parente anche della Kòllyva greca, una vivanda a base di grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, che si porta in chiesa, alla fine di una messa di requie, su un vassoio e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti; ma risulta parente anche della Kutjà russa che era a base di grano (o miglio, orzo, riso), bollito.
In Sicilia, la sua preparazione è una vecchia consuetudine che ci perviene dall’ormai scomparso mondo contadino che, in periodo di mietitura, mangiava i chicchi di grano lessati, sul posto, nei momenti di pausa.

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