domenica 26 giugno 2016

La mia maestra e "i sfinci" di San Martino



Quando il primo ottobre entrai nella mia nuova classe, tante bambine mi guardavano con la stessa curiosità con cui scrutavano la nuova insegnante, anche Lei appena arrivata dal “continente”, in seguito al trasferimento del marito. La maestra Maglienti, così si chiamava, si rivelò molto severa ma anche molto disponibile e attenta verso ognuna di noi che, provenendo da famiglie con grande disparità economica, sociale e soprattutto culturale, aveva bisogno di particolare attenzione.
Capitava spesso che, durante la lezione, la maestra, penso curiosa di conoscere la città che la ospitava attraverso il racconto dei locali, ci invitasse a parlare delle nostre tradizioni e usanze che rendevano Palermo e la Sicilia affascinanti, stimolando la gara tra noi alunne, gara che si accentuò il giorno in cui ci chiese di raccogliere notizie sulle tradizioni e i piatti tipici della festa di San Martino, che si sarebbe festeggiata pochi giorni dopo. Ero contenta, incuriosita e particolarmente stimolata dalla novità, che mi permetteva anche di conoscere meglio le mie compagne; ma che lavoro per la mia mamma che, disponibile e paziente perché ero lenta nello scrivere, mi dettava le notizie, facendomele ripetere più volte mentre aspettavo con ansia di raccontarle alla maestra che a scuola, il giorno dopo, lodandoci per i nostri lavori, organizzò gli interventi. Gloria lesse i proverbi, “A san martinu ogni mustu è vinu”,  “è l’estate di San Martino”, espressione la prima che ricorda che in questo giorno si spilla la botte e si assaggia il vino e che l’11 novembre è conosciuto in Sicilia come l’ultimo giorno d’estate, aggiungendo che durante questa giornata, i bambini passeggiavano per le vie, portando vassoi e cesti, ornati da tovaglie splendidamente ricamate che contenevano oltre al regalo, dolciumi e soprattutto i “panuzzi di San Martino”. Luisa descrisse il Santo come era rappresentato nelle raffigurazioni sacre, con armatura, mantello e spada, in sella ad un cavallo bianco. Maria, impaziente, la interruppe per raccontare la tradizione a Palazzo Adriano, una località in provincia di Palermo, dove si ripeteva un’antica usanza che vedeva come protagonisti i novelli sposi che ricevavano dai loro parenti e dai loro amici cibo, accessori utili per la casa e una fornitura del necessario per affrontare l’inverno. Quando la maestra, mi chiese di parlare delle usanze catanesi, risposi che la festività, così mi disse la mia mamma, si svolgeva in tono minore, gustando il vino accompagnato da qualche focaccia: In una frazione del paese di  Milo, si assaggiano salsicce con caliceddi ( verdura selvatica che nasce solo alle falde dell’Etna), castagne e vino, cannoli alla ricotta, torte fatte in casa e castagne, mentre ad Aci Bonaccorsi si mangiano i carduni, la mostarda di fichidindia e si beve il vino novello, con il quale si fanno delle gare di bevute, mentre a Trapani, me lo raccontò mio padre, in questo giorno si mangiano le “muffulette”, focacce condite con semi di finocchio e ricotta, accompagnate da un bicchiere di vino rosso. A Loredana, la nonna aveva raccontato che il culto era arrivato a Palermo con i Normanni e che la ricorrenza si festeggiava in due giorni diversi: Quella dei ricchi, l’11 novembre, e quella dei poveri la prima domenica successiva, perché per poter imbandire la propria tavola, molte famiglie dovevano attendere la paga settimanale, ma che i ricchi e i poveri mantenevano un’usanza in comune, “abbagnavano nnù muscatu” (inzuppavano nel moscato) il tradizionale biscotto di San Martino detto Sammartinello.
Ma qual era il pranzo della festa, chiese la maestra a Rossana: Da sempre si inizia con gli anelletti al forno, poi con “u adduzzu agglassatu”( galletto) con le patate, i primi cavolfiori affogati, la prima ricotta e le prime arance che sono talmente aspre da essere utilizzate in insalata come “levasdegnu”(si mangiano per alleggerire i sapori forti degli altri piatti, sperando in una buona digestione). Il pranzo si conclude con " i sfinci” di San Martino ( da non confondere con i sfinci di San Giuseppe) e i sammartinelli, biscotti tricotti e aromatizzati con semi di finocchio, inzuppati nel moscato di Pantelleria, dei quali esiste una versione più ricca ed elaborata: Sono biscotti più morbidi, cotti solo una volta e ripieni di marmellata, ricoperti di una glassa di zucchero e decorati con confetti e cioccolatini oppure ripieni di crema di ricotta.
 Che bella esperienza! Tornata a casa, raccontai la giornata scolastica con tanta enfasi da far divertire i miei fratelli. Finalmente arrivò la festa di San Martino e che quella giornata fosse speciale l’avevo capito fin dal mattino con il clima estivo che prometteva bene: Le mamme erano alle prese con la preparazione del tradizionale pranzo e anche la mia mamma, che si era informata presso la gentilissima signora del pianoterra, La Mantillina, si era cimentata con qualche pietanza, suscitando tanta curiosità: Il galletto “aggrassato” con le patate, molto buono e che mio padre, che era l’unico a conoscerne il gusto, aveva apprezzato molto. Noi bambini, dopo la cena, grazie alla festività, avevamo avuto il permesso di rimanere in cortile a giocare, oltre l’orario stabilito, aspettando gli “sfinci”, golose frittelle ricoperte di zucchero; mentre i maschietti giocavano a nascondino, noi bimbe cantavamo e ballavamo mentre il vento caldo africano ci accarezzava il volto e sollevava i nostri vestitini: Io imitavo le ballerine che vedevo volteggiare nei film musicali, a cui assistevo con la mia mamma. Da piccolissima, ascoltando la musica, mi movevo a tempo e con armonia e, con gli anni, il ballo é stato parte di me, mi ha permesso di esprimere, attraverso i movimenti del mio corpo, emozioni e soprattutto mi procurava felicità perché il ballo, uno strumento espressivo straordinario, ancora oggi, a settant’anni suonati, mi fa provare quelle "antiche" emozioni. Scusate la divagazione! Quando arrivarono “i sfinci”caldi e profumati fu veramente festa, come capita ancora oggi ogni volta che li preparo, facendomi ritornare emotivamente in quel cortile intenta a volteggiare, accarezzata dal vento. Vi propongo la ricetta perché sono certa che voi, ma soprattutto i bambini,  la apprezzerete molto.

Sfinci di San Martino ( frittelle )

Ingredienti
½ kg di grano duro, ½ kg di farina 00, 600 g. di patate lessate e passate, 100 g. di zucchero, 500 ml di latte tiepido, 2 cubetti di lievito da 25 g., il succo e la scorza  grattugiata di una arancia, zucchero e cannella per condire e 1litro e ½ di  olio di semi di arachide, padella con bordi molto alti.

Preparazione
Mettete, in un recipiente, le farine setacciate, le patate lessate e passate, 100 g. di zucchero, il succo e la scorza grattugiata dell’arancia. Sciogliete, nel latte tiepido, il lievito, aggiungetelo agli altri ingredienti e iniziate ad impastare, in maniera energica, fino ad ottenere un composto liscio, morbido ed omogeneo. Mettete il composto in una ciotola, molto capiente, coprite con panno e lasciate riposare e lievitare per un’ora. Quindi se, controllando l’impasto, si sono formate delle bolle è giunto il momento della frittura.
In una padella con i bordi alti, versate non meno di 1 litro e ½ di olio e quando sarà caldo, lasciatevi cadere con il cucchiaio ( dovete bagnarlo prima di prendere l’impasto) noci di impasto. Si formeranno tante frittelle rotonde che noi chiamiamo “sfinci”; aiutandovi con la schiumarola fate dorare uniformemente quindi scolatele e mettetele su uno scolapasta, coperto di carta da cucina assorbente per eliminare l’olio in eccesso. Dopo la frittura di tutte le sfinci, passatele nello zucchero che, per chi amasse il gusto, può essere aromatizzato con la cannella. Sono buonissime, potete mangiarle anche il giorno dopo

giovedì 23 giugno 2016

L'estate: Favignana, Mondello e...........





E’ indelebile il ricordo della prima estate palermitana: Finalmente tutta la famiglia riunita, la campagna complice dei miei giochi e la scoperta del mare. Sì, proprio così, ho scoperto il mare, quel mare che mia madre riteneva pericoloso, “in mare non ci sono taverne”(ovvero il pericolo è sempre in agguato, non sempre si può contare su aiuti immediati) diceva, per giustificare la sua decisone. E alla continua richiesta dei  miei fratelli di vivere una giornata al mare con gli amichetti , mia madre confermava le sue preoccupazioni: “Io, diceva, non so nuotare e non potrei aiutarvi se foste in pericolo”, dimenticando di dire che lei non si esponeva al sole per le efelidi, che sarebbero comparse sul suo viso sarebbero state deleterie, per la sua immagine. 
Per anni, quindi, il nostro mare è stato il ruscello che attraversava la proprietà del nonno: Partivamo al mattino presto con una buona colazione e ci recavamo in campagna dove "lui" ci aspettava, pronto ad accoglierci, contento di stare un po’ con noi, durante la giornata.
Il mare invece per mio padre era vita! E fu infatti il suo primo regalo, comunicandoci che avremmo trascorso le vacanze estive a Favignana, nella villetta di famiglia, da cui si godeva uno spettacolo naturale straordinario, ma soprattutto che ci avrebbe aiutato a prendere confidenza con l’acqua: “Il mare, diceva, è affascinante nella sua immensità e per il mistero che nasconde; il suo odore , la sabbia sotto le dita, l’aria e il vento danno sensazioni uniche che, sono sicuro, scoprirete anche voi”.

Ero talmente felice a questa notizia che ero corsa a comunicarlo a tutti i miei compagni di gioco che a loro volta mi avevano raccontato della spiaggia frequentata con le loro famiglie e dei divertimenti allo stabilimento con gli amichetti del momento.  Papà, aspettando le ferie di agosto, spesso  ci portava a Mondello e precisamente allo stabilimento “Charleston”, costruito a palafitta sul mare, dove trascorrevamo la giornata: Giocavamo, prendevamo il sole, facevamo il bagno e a pranzo si andava al ristorante, per gustare pietanze gustose e poi si tornava a casa.
Anche se contenta, pensavo che i miei amici si divertivano di più ed io volevo stare con loro; quindi senza pensarci due volte sono andata a casa di Maria per chiedere alla sua mamma se potevo aggregarmi quando fossero andati al mare e la risposta mi aveva riempito di gioia: “Se la tua mamma è d’accordo perché no”. Tanta era stata la felicità nel comunicare a mia madre la disponibilità della mamma di Maria, quanta era stata la delusione per il suo netto no, senza possibilità di ripensamento, anche se motivato: "Devi alzarti troppo presto e, vivendo una giornata intensa al mare, ti stancheresti". Convinta che la motivazione fosse volutamente costruita, chiesi notizie alla signora di mia conoscenza, la Mantillina, che confermò quanto detto da mia madre: Le donne  si alzano alle quattro per friggere “i milinciani” per preparare la pasta al forno, con il salame, il formaggio a fette sottili e le uova e poi ancora le cotolette “pi picciriddi, picchì ca sula pasta un si sazianu”, e finalmente preparata la borsa frigo grande, con le bibite e le birre per gli adulti, verso le otto partono per il mare. Ha ragione la mamma, concluse, devi alzarti troppo presto ed è stancante, se devi trascorre la giornata al mare”. Quando  chiesi a mio padre di perorare la mia causa, la risposta fu chiara e immediata: “Quando la famiglia di Maria deciderà di trascorrere solo mezza giornata al mare, potrai andare.” Quanta felicità quel giorno!

Insieme a Maria e i suoi fratelli e i loro genitori andammo allo stabilimento di romagnolo, i bagni Virzì, molto diversi dal Charleston di Mondello: Le cabine, al cui interno avevano il sedile in muratura e un lavabo, si affacciavano su una balconata da dove, scendendo una scaletta, si arrivava al mare che era un misto di scogli e ciottoli. La mamma di Maria, in prendisole e non faceva il bagno, mi aveva aiutato ad indossare il costumino, mentre Maria e i suoi fratelli andavano in acqua in mutandine. Il loro papà aveva indossato un costume noleggiato sul posto  e ricordo come se fosse ora, sono passati più di sessant’anni, che il costume, di lana spessa e di misura più grande, uscendo dall’acqua si allungava, penzolando e il pover'uomo, con il petto nudo che mostrava il segno della canottiera, lasciato dai raggi del sole, sembrava un clown. Il tempo trascorreva velocemente ma eravamo felici, ammirando e godendo di quel mare con il suo colore azzurro e le acque cristalline: Quante rincorse, spruzzi  d’acqua e giochi in spiaggia con la sabbia e nascondino tra le cabine. Il nostro pranzo era stato il pane e frittata e pane e melanzane con una buona fetta di anguria che il papà di Maria aveva comprato, durante il tragitto per il mare;

mi aveva incuriosito il modo con cui il papà di Maria aveva scelto “u miluni”, la signora mi spiegò che “u miluni” deve essere scelto con cura e per questo il marito “tuppuliava”  - batteva con il pugno - sull'anguria e vi accostava l’orecchio per auscultare mentre noi lo guardavamo in religioso silenzio, per non disturbarlo.

Quando ho gustato quella fetta di miluni di un rosso vivo, dolce e gustosa, come si dice in Sicilia, “mi sono scialata”e, anche se sbrodolandomi avevo sporcato il vestito, ho chiuso in bellezza la mia esperienza.

domenica 12 giugno 2016

Cibo di strada..............segui il profumo



 Quando chiesi a mio padre cosa  vendesse l’ambulante che postava, tutti pomeriggi, la bancarella accanto al mercato ortofrutticolo, e perché quel cibo sprigionasse tanto fumo e strano odore, mi rispose che il venditore, preparava i ”stigghiola”, budella, attorcigliate attorno al prezzemolo e i cipollotti con sale e pepe, arrostiti nel suo “fucuni”, grande fornello metallico: E’ una pietanza apprezzata da molte famiglie, mi disse, le quali capivano che lo stigghiularu, così si chiamava il venditore, era pronto ad accogliere i clienti, proprio dall’odore (1) e dal fumo (2) che si levava alto nel cielo, durante la cottura. Quel piatto, aggiunse, era una tradizione antica(3), di origine greca, cucinato in molte città dell’isola, in cui questo popolo aveva lasciato traccia della sua presenza, che rappresentava, insieme a tante altre pietanze, il cibo di strada che i palermitani mangiavano con gusto. A stuzzicare l’appetito, disse,  c’è un lungo elenco di antipasti: Le arancine di riso, i cazzilli (squisite crocchette di patate), u pane cà meusa con due versione, “schietta” con una spruzzatina di limone e “maritata”, cioè sposata con la ricotta e caciocavallo, che in bocca diventa dolce e morbido e ancora lo sfincione, una grossa sfoglia di pasta condita con pomodoro, cipolla, acciughe e caciocavallo e le panelle, sfoglie sottili al punto da far dire di qualsiasi persona con poco spessore “pari na panella”.
Nascono come piatti poveri che una volta venivano consumati soprattutto da coloro che non potevano permettersi la carne e i pesci pregiati, disse, ed erano i buffittieri(4) che li vendevano su ripiani, piazzati per strada: Odori, profumi, sapori singolari, voci e le "abbanniate" del venditore, rappresentano la cucina di strada, una realtà consolidata, fatta di piatti semplici e popolari, specialità da consumarsi all'aperto, tra i vicoli e i mercati. Mio padre mi promise che mi avrebbe accompagnato in giro per la città, per vivere una nuova esperienza, io conoscevo quella catanese, per gustare il cibo di strada, percorrendo le vie , in negozietti ed ambulanti o in bancarelle improvvisate nei mercati di “grascia” palermitani. Quando gli chiesi quale sarebbe stato l’itinerario, lui sorridendo, mi rispose: Seguiremo il profumo! Faremo un viaggio nel gusto, un percorso a piedi tra piazze storiche e i mercati popolari, un itinerario che si snoda tra rosticcerie, pasticcerie, e venditori ambulanti, assaggiando il meglio della tradizione culinaria da strada. Partimmo dal teatro Massimo, per entrare al “Capo”, il mercato più vivo e più frequentato, diceva mio padre, dove c’era di tutto, cazzilli, panelle e le migliori arancine; ero affascinata  dallo spettacolo di colori e di suoni e anche dalla simpatia dei venditori che, gesticolando, ti chiamavano e ti invitavano ad assaggiare.
Mio padre mi consigliava di non fermarmi e proseguire il viaggio e giunti, in via Maqueda, in una piccola rosticceria ho, finalmente, assaggiato lo sfincione, morbido, gustoso e buonissimo, ero già sazia e anche stanca, speravo che il mio papà se ne accorgesse, ma non potevo deluderlo; ci incamminammo verso via Roma  e ci ritroviamo, scendendo alcuni gradini, alla “Vucciria,”: Questo è il cuore pulsante dei mercati cittadini, mi disse, dove sui banchi di pesce fresco puoi trovare anche u purpu bollito e i cicireddi, pesciolini fritti al momento, l’unico tipo di pesce che si può mangiare per strada”, nel “cuppiteddu” di carta; raggiungemmo l’ultima tappa, ero troppo stanca per continuare oltre e mio padre l’aveva capito, “Ballarò”, quartiere multietnico per eccellenza e il più antico, animato dai venditori delle cosiddette abbanniate ma anche con i segni di degrado e di abbandono perché il mercato si presentava come un ammasso di bancarelle, assiepate  e con la strada invasa da cassette di legno e tanta confusione, unico elemento positivo le primizie che arrivavano dalle campagne del palermitano. E la frutta era buonissima, mi aveva ricordato la campagna del nonno e i suoi gustosi e genuini prodotti della terra: Che bontà!
L’esperienza con il mio papà rimane unica come unici e gustosi sono i piatti di strada ma le panelle, la cui nascita sembra risalga alle sperimentazioni gastronomiche degli arabi, le preferisco in assoluto: Sono state la mia colazione scolastica e spesso le mie merende, quanto è lontano il ricordo della melanzana farcita, genuina e gustosa che mia madre mi preparava, a Paternò.
E mentre tornavamo a casa, mio padre mi parlò delle friggitorie e della loro evoluzione: Oggi sono dislocate in più parti della città e in locali mentre, in passato, il panellaro aveva solo un carretto su cui aveva montato un baracchino di legno chiuso da tre lati, al cui interno vi era un fornello in pietra lavica, sul quale era posta una grande padella utilizzata per la frittura, un ripiano in cui si mettevano in mostra, in piatti d’alluminio, le panelle già fritte, e un contenitore di latta con il coperchio bucherellato, per il sale e in un angolo si potevano intravvedere le mafalde, pagnotte  dalla caratteristica forma a serpentone ricoperte di cimino (sesamo); in seguito il carretto era stato sostituito dal caratteristico “lapino”, attrezzato per cuocere al momento le panelle e le crocchè e, anche se alcuni girano ancora per la città, sono stati sostituiti dalle attuali friggitorie.
Ricordo ancora quando al mattino, prima di andare a scuola, incontravo il mio panellaro, simpatico e generoso, tante volte mi aveva fatto credito e non aveva poi accettato i soldi. Quanto mi mancano le panelle! Quando posso le preparo, regalandole anche ad amici che hanno cominciato ad apprezzarle tanto da, provarci. Vi propongo la ricetta, nel caso voleste provarla.

I panelli
Ingredienti
200 g. di farina di ceci, ½ litro di acqua, prezzemolo, sale, pepe nero, olio di semi (io uso olio extravergine) mattarello, carta da forno, carta assorbente, tegame dal fondo spesso, padella capiente, dai bordi alti.
Preparazione
Sistemate la farina di ceci in una terrina e aggiungete l’acqua, un po’alla volta;  con una frusta da cucina, amalgamare bene tutto, girando fino ad ottenere un composto fluido e privo di grumi. Dopo averlo fatto riposare qualche minuto, versatelo in una pentola dal fondo alto e spesso per non fare attaccare il composto e accendete il fuoco, aggiungendo un pizzico di sale. Cuocete a fuoco alto per 10 minuti, mescolando di continuo fino a quando il composto non avrà una certa consistenza, quindi  abbassate la fiamma al minimo, lasciando cuocere per ancora 15/20 minuti, girando di tanto in tanto perché l’impasto non si attacchi al fondo. Aggiungete il prezzemolo tritato e un pizzico di pepe nero poco prima di ultimare la cottura.
A questo punto dovete essere lesti e fare in modo che il composto non si raffreddi, se ciò accadesse non si potrebbe più lavorare. Versate il composto intiepidito, su una superficie liscia o una tavola di legno inumidita, distribuitelo bene con una spatola o un coltello, bagnati, per ottenere uno strato sottile. Quindi ricoprite con la carta da forno il composto e spianate, usando un mattarello e quando si sarà indurito, togliete la carta da forno, tagliate, formando tanti rettangoli. Adesso potete friggere! Versate abbondante olio di semi ( io uso olio extravergine) in una padella capiente e dai bordi alti, accendete il fuoco e quando l’olio avrà raggiunto la giusta temperatura, immergete i rettangoli di panelle e fateli dorare da entrambi i lati, quindi poggiateli su un vassoi coperto da carta assorbente da cucina, salate e servite calde, (fredde perderebbero il gusto originale e se si prova a riscaldarle il risultato non è dei migliori), confermando il detto “Chianciri a panella” che sembra riferirsi al fatto che la panella calda è di certo difficile da mangiare senza scottarsi, ma ha un gusto particolare. Se aveste poco tempo e/o poca pazienza, fate un viaggetto a Palermo dove gusterete delle squisite panelle, godendo anche della visita di una città speciale e se il lavoro o altri impegni ve lo impedisce, potrete comprarle in alcune gastronomie di Torino: zona Mirafiori, via Livorno e via Cecchi.


(1)La cottura avviene sempre all’esterno, in quanto l’odore che sprigiona è forte e acre e di conseguenza difficilmente eliminabile.
(2)Effetto del grasso che cola sui carboni accesi, durante la cottura.
 (3) I romani ne fecero un vanto ( di quelle strutture, locali sempre aperti, rimangono importanti  vestigia a Pompei); lo scrittore Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi:” Non più fiaschi appesi ai pilastri…..barbieri, friggitore, norcino…….Ora c’è  Roma, prima era un casino.” Ma che attualità!!
(4) Dal francese bouffet, cioè tavolo, bancone, alimenti serviti su un ripiano.

venerdì 10 giugno 2016

Ed ecco nonno Nino, il compagno di viaggio della mia infanzia

Quando io e la mamma tornammo a Paternò, per dare l’estremo saluto a nonno Nino, la zia ci raccontò che, durante la malattia, continuava a chiamare, Milia, Milia, non è mai riuscito a pronunciare correttamente il mio nome, chiedendo continuamente quando sarei arrivata.
Ero molto triste e rammaricata di non aver potuto salutare e abbracciare il mio compagno di chiacchiere e di racconti, come lo consideravo, e la zia, rincuorandomi, mi disse: Gli siamo stati accanto fino alla fine, dandogli serenità e amore e tanta attenzione; lo abbiamo rasserenato anche quando chiedeva la tua presenza, assicurandogli che saresti arrivata presto. Prima di ripartire, siamo tornate in campagna dove avevo trascorso tante belle estati e che rappresentava il mondo semplice e genuino che il mio nonno ci aveva fatto amare e poi ci dirigiamo verso la stazione, per ritornare a palermo.
Prima di salire sul treno, la zia mi restituì la letterina che avevo inviato al nonno qualche mese dopo il mio trasferimento, dicendomi che il mio compagno di viaggio l'aveva custodita gelosamente, sotto il cuscino. In quella letterina, che purtroppo non ho più e che avevo letto e riletto tante volte, immagino di avere scritto così : “Caro nonnino mi trovo in un posto un po’ bello, il nostro lo è di più; non c’è l’acqua rossa che sgorga dalla roccia, né l’orto dove raccoglievo la verdura e i legumi con i quali la mamma cucinava tanti buoni piatti e non ci sei tu che mi vuoi bene e mi pensi sempre. Non essere triste, io verrò presto a trovarti per stare tanto tempo con te e ascoltare i racconti che mi piacciono tanto. Quando mi prende la nostalgia, mangio qualcosa che mi ricorda la nostra campagna e i prodotti genuini della buona terra.
Ti ricordi quante volte ti ho aiutato a portare in casa la frutta fresca e quando partecipavo alla raccolta delle olive ? Nel paesino in cui vivo adesso tutto la realtà é dicersa, siamo in periferia, all'aperto con tante piante di agrumi e tanti alberi da frutta, come nella villa settecentesca abbandonata che insieme ad altri bambini, vado ad esplorare.." E se potessi continuare quella lettera, aggiungerei: "Caro nonnino, mi ricordo che papà, quando avevo nostalgia del mio paesino e di te, mi diceva che la memoria è il compagno più caro di ogni persona, che permette di mantenere vivo il senso di appartenenza, rimanendo legati al cordone ombelicale della propria terra d’origine; è come il cibo, diceva, che racconta sempre una storia, ed è un mezzo di comunicazione non verbale che aiuta a mantenere vivi le proprie tradizioni e  mediare le culture diverse". E’ proprio vero! Quando a tavola trovo “l’alivi cunsati”, mi rivedo nella piccola via del nostro paesino, vedo il mio nonnino e il suo ciuco, i prodotti della terra nelle sacche e i cesti di olive appena raccolte e il lavoro di preparazione per farli diventare un buon antipasto, nella nostra tavola. Nonno ti voglio tanto bene e mi manchi, mio compagno di giochi”. Ciao, la tua nipotina Milia.

Mentre il treno mi portava verso casa, pensavo a quanto affetto, valori e tradizioni mi ha regalato nonno Nino, l'amore per il mondo contadino e i buoni piatti che mi accompagnano ancora oggi. Da quasi cinquant'anni, preparo “l’alivi cunsati”che, oltre ad essere un ottimo antipasto, è  un omaggio all’uomo che mi parlava della terra, del rispetto e della cura per preservarla: ” Lu patri si nni va la roba resta”( l’uomo muore, la terra rimane) diceva sempre. E mi capita spesso di rivivere le emozioni antiche e di rivedermi bambina mentre tento di raccogliere le olive, mentre ascolto il canto delle donne che fanno la raccolta e mentre il mio nonnino mi solleva perché possa raggiungere i rami più alti.
Quasi in tutte le case siciliane è ancora tradizione preparare le olive verdi schiacciate e condite, per esaltarne il gusto e se ne preparano in abbondanza, per regalarli anche ai parenti. E’ una ricetta tipica del periodo della raccolta delle olive, solitamente fine settembre /novembre. Prima di raccogliere tutte le olive per la molitura, ne viene anticipata una, scegliendo solo quelle più grosse e prive di imperfezione, proprio per avere un ottimo ingrediente per la ricetta. Provate anche voi a preparare “l’alivi cunsati”, vi assicuro che sono di facile preparazione (a Torino potrete trovarli, tra ottobre/novembre, al mercato di Porta Palazzo) e sono un ottimo antipasto.
Alivi scacciati, alivi cunzati
Prima di cominciare le operazioni vi conviene indossare un grande grembiule per evitare schizzi di olio e macchie difficili da eliminare.
Ingredienti
1 kg. di olive verdi, fresche e senza imperfezioni, olio extravergine, origano, secondo il vostro gusto, 2 peperoncini rossi, spicchio d’aglio, sale, tagliere, batticarne, sasso o un martello ( è lo strumento che uso io)

Preparazione
Lavate le olive per eliminare impurità e terra e su un tagliere di legno, con un batticarne o sasso ( io uso il martello), date un colpo secco ad ogni oliva. Mettete le olive schiacciate in un contenitore capiente e versate del'acqua bollente per circa 3 minuti, non superateli perché renderebbero le olive molli, quindi scolate e versatevi sopra dell' acqua fredda con un cucchiaio raso di sale grosso per per 4 -5 giorni, avendo cura di cambiare l’acqua due/tre volte al giorno, sempre aggiungendo del sale grosso. Trascorsi i giorni stabiliti, assaggiate per sentire se l’amaro sia stato eliminato, scolate le olive e sciacquatele bene e asciugatele con cura con della carta assorbente, da cucina,. 
Adesso procedete al condimento: Prima di mettere le olive in un contenitore di vetro, se volete conservarle, preparatele in un piatto, aggiungendo due spicchi d’aglio (interi o a fettine sottili), i peperoncini piccanti, origano e abbondante olio e mescolate molto bene, per fare insaporire.  Ricordate che le olive condite si possono mangiare subito ma se li fate insaporire un paio di giorni,  è tutta un’altra cosa: Sentirete che profumo!

mercoledì 8 giugno 2016

L'acchianata, i fedeli e "a cutuletta alla palermitana"




Erano trascorsi alcuni giorni dalla partecipazione al fistino di santa Rosalia ma noi fratelli continuavamo a parlarne e a porci tante domande; fu la signora del pianoterra, a mantillina, che, gentilissima come sempre, appagò le nostre curiosità con dovizia di particolari e con ricchezza di aneddoti, aggiungendo che la commemorazione della Santuzza si sarebbe conclusa  il 4 Settembre con la festività liturgica a Monte Pellegrino e con la famosa “acchianata”(salita) che i fedeli, tutti, affrontavano con una richiesta, un messaggio da affidare alla Santa, custodito nel silenzio della grotta. Ne parlammo a cena con mio padre che, con un sorriso di compiacimento, ci spiegò che questo appuntamento, per i palermitani, era come la Mecca per i musulmani, quindi almeno una volta si doveva fare: E’ la festa, disse, della fede e della tradizione, dei “voti” custoditi gelosamente e presentati con i dubbi e le speranze, ai piedi della Patrona; è un giorno di preghiera, di riflessione e devozione popolare.
Ci aveva stupito l’interesse e l’attenzione sull’argomento da parte di mia madre, motivazione che avremmo scoperto qualche giorno dopo quando ci comunicò, con grande gioia, che, avendo fatto un voto alla Santa, avremmo affrontato anche noi “l’acchianata”a Monte Pellegrino.
A nulla erano valse le nostre rimostranze anche perché aveva l’appoggio incondizionato di mio padre, quindi noi fratelli fummo costretti ad
 una riunione lampo, durante la quale decidemmo di cercare ulteriori notizie.
E ancora la nostra esperta, a mantillina, ci spiegò che il percorso era lungo e difficoltoso ma che la forza della fede e la motivazione per la quale si compiva, avrebbe dato energia, spingendo il fedele verso la meta. Accidenti, non se ne usciva! E mio padre, a cui avevamo esternato le nostre perplessità, ci aveva dato il colpo di grazia, confermando la decisione, motivandola come momento bucolico, unico nel suo genere: Il luogo è immerso in una vegetazione tipicamente mediterranea, disse, con un fiore all’occhiello che è il Castello Utveggio e con una splendida visione panoramica su tutta la città, dimenticando di comunicarci che la partenza sarebbe avvenuta alle prime ore del mattino.
 E alle prime ore del mattino, mio padre ci accompagnò al luogo dell’incontro dove trovammo, con grande sorpresa, tante persone, fedeli di ogni età, di ogni quartiere e razze ( anche  tamil) che si accingevano all’ascesa al santuario nella maniera più varia: Chi saliva a piedi, indossando un paio di sandali e stringendo un rosario, chi in bici, chi in preghiera o in silenzio, secondo la promessa fatta alla Santa. Il percorso era stancante, io sbuffavo e mi lamentavo, chiedendo spesso a mia madre notizie sul tempo di arrivo. Devo ad un signore, che faceva la salita con noi, la forza di arrivare in cima perché durante il tragitto mi rassicurava:
Stai tranquilla, mi diceva, arriveremo un po’ stanchi ma felice di poter rendere omaggio alla salvatrice della nostra città; è lontano il tempo in cui i devoti affrontavano il viaggio in ginocchio, che si auto flagellassero  sotto il sole cocente di Luglio o con  la temperatura più gradevole dei  primi giorni di Settembre e ancora peggio che, giunti davanti alla chiesa, raggiungessero il simulacro leccando, con la lingua, il pavimento. Accidenti, che roba! Anche se un po’confusa, continuavo a salire piano piano, godendo di un ambiente naturale e piacevole, come ci aveva anticipato mio padre, tanti alberi, fichi d’india, tanti aghi di pini e anche tante bancarelle e punti di ristoro, disseminati lungo il percorso, pronti ad alleviare i pellegrini con ogni genere di conforto perché come,  mi spiegò il mio vicino, per i palermitani il cibo è l’elemento primario di un momento sacrale: “Santo veni, festa fai” - arriva il festeggiamento del santo e fai festa-, rafforzato dal detto  “Agnieddu e sucu e finiu u vattiu” , un modo per indicare che le feste religiose, come il battesimo, sono mirate in modo principale al banchetto che lo segue e quindi, dopo il pranzo, la festa è finita. Finalmente arrivammo al santuario, stanchi, affamati e assetati ma felici di visitare le spoglie di Santa Rosalia:
L’immagine di questa giovinetta mi aveva molto impressionato, come mi aveva meravigliato tutto l’oro che le faceva da corona e quello che le copriva il corpo e come mi aveva colpito la visione dei tanti ex voto, appesi nelle bacheche che raccontavano il dramma familiare di una popolazione. E finalmente era arrivato il momento del riposo e della sospirata colazione: La mia mamma aveva preparato per noi  “A muffuletta ca cutuletta alla palermitana”che è molto buona. La carne impanata con gli aromi rende il piatto particolarmente stuzzicante. Dovete assaggiarlo, sentirete il gusto della sicilianità.

Cotoletta alla palermitana
La caratteristica di questo piatto è che non richiedendo la frittura, risulta molto leggero e digeribile e quindi adatto anche a chi segue un regime alimentare controllato.
La cotoletta alla palermitana, è preparata con una particolare panatura che dà un sapore più deciso e corposo e viene cotta al forno. La ricetta è semplicissima e lascia libero arbitrio sulla quantità di aromi che vorrete aggiungere; ricordate che i diversi sapori devono essere equilibrati. L’invenzione della panatura nella tradizione viene spesso fatta risalire alla corte di Federico II, quando si cercò un modo per recare con sé la pietanza, in viaggio e nelle battute di caccia.
La muffuletta ( mou/molle, si pensa che il nome sia di origine francese), è un pane tondo, morbido e profumato, genuino, cosparso di “gigiulena,” croccante sesamo.

Ingredienti
500 g. Fettine di vitello
Trito di 30 g capperi dissalati, prezzemolo, 50 g di olive nere snocciolate, 50 g. di parmigiano grattugiato, 300 g. pangrattato, sale e pepe
Olio extravergine
Preparazione
Panatura: mescolare il parmigiano grattugiato con il pangrattato e con il trito di odori, salare e pepare
Le fettine, passate nell’olio extravergine, vengono impanate, sistemate in una teglia e infornate per circa 10 minuti a 180 C, ricordando di girarle a metà cottura.

sabato 4 giugno 2016

U fistinu, gli ambulanti e "u sfinciuni"



E’ stata  la mia prima partecipazione ad una manifestazione notturna e soprattutto al “fistino” palermitano. Mio padre ci aveva anticipato alcune notizie raccontandoci che la festa cominciava al mattino del 14 Luglio, con spari di mortaretti e con il suono delle campane delle tante chiese, e i rintocchi della campana senatoriale del palazzo Pretorio che proclamavano l’apertura, con cerimonie pubbliche sia religiose sia civili.
Vedrete una città in fermento, disse, per la preparazione della manifestazione: Buona parte delle strade del centro sarà chiusa dalle diciotto della vigilia e fino alle tre di notte e lo stesso avverrà per i negozi e gli uffici, per preparare le attività del festino che iniziano alcuni giorni prima, con le gare di decorazioni e d’illuminazione tra i vari quartieri, con la preparazione al corteo e alla sfilata del carro, strumento fondamentale per la rappresentazione del trionfo religioso e umano, introdotto per la prima volta nel 1686, con una statua della Santa, sempre nuova di anno in anno. E così è stato! Il giorno che aspettavo, un appuntamento irrinunciabile, era arrivato e finalmente con mio padre si partiva alla scoperta di una nuova e gioiosa realtà. Non avrei mai immaginato quello spettacolo: Migliaia di palermitani devoti e tanti turisti curiosi e affascinati, come lo ero io, sfilavano per la grande arteria, dietro al Carro che, per tradizione, si fermava alla Cattedrale, (un maestoso edificio che si impone per la scenografica presenza delle sue linee architettoniche e la imponenza della splendida facciata, incorniciata da due campanili che racchiudono l’abside e che costituisce ciò che rimane della prima edificazione normanna dell’isola. Costruita dal 1184 su un preesistente edificio di culto musulmano, nel corso del tempo è stato sottoposto ad una serie di ristrutturazioni , modifiche e aggiunte) e ai quattro canti dove il sindaco, saliva sul carro, deponendo un mazzo di fiori ai piedi della statua della Santa, al grido di “Viva Palermo viva Santa Rosalia”. Ero affascinata, incuriosita ma anche spaventata da quel terremoto umano, ad un’ inspiegabile e grandissima partecipazione popolare che probabilmente, non ha uguali in nessuna altra parte d’Italia, tanto da costringermi a tenermi stretta alla mano del mio papà, per paura di perdermi mentre seguivamo la marea umana; mia madre, invece, insofferente, non amava la confusione, la calca e gli spintoni che, purtroppo, spesso accompagnavano i nostri movimenti, sperava di tornare a casa al più presto. Ai lati della strada facevano coreografia, con i loro colori e odori, le bancarelle con i tipici cibi da strada dove molti partecipanti alla processione, sostavano, mangiavano e riprendevano il cammino dietro il grande carro. Il caldo si faceva sentire e mio papà ci aveva invitato a prendere un gelato, prima di continuare la processione verso il foro italico dove avremmo trovato molti ambulanti che avevano allestito le loro bancarelle con i piatti tipici propri della festa che, per una sera, facevano da anello di congiunzione tra il popolino e la borghesia: Sulle tavole delle sfarzose terrazze e sui banchi dei marciapiedi del Cassaro, si trovavano “tavolate” di pietanze che fanno parte della tradizione popolare palermitana come i babbaluci ( lumache bollite e condite con aglio e prezzemolo), u sfinciuni, a calia e simenza ( ceci brustoliti e semi di zucca salati), a pullanca ( pannocchia bollita) e i miluni (angurie), alcuni dei piatti tipici. Era uno spettacolo di colori e di sapori che mi impediva di fare una scelta precisa, fu mio padre a consigliarmi “u sfinciuni”, simbolo della cultura del cibo di strada, e a chiedere, avvicinandosi al banchetto, cinque porzioni di questo squisito piatto. Mentre aspettavamo di essere serviti, assistemmo ad una scena esilarante,  si era avvicinato un signore, con ancora in mano la porzione già acquistata e rivolgendosi allo sfinciaro disse: “ Talia no sfinciuni c'è na musca”, e l’altro rispose “ e chi vuleva u pullu” ( Guardi nello sfincione c'è una mosca e l’altro rispose, e cosa pretendeva il pollo!) Dopo le risate di rito, mio padre ci spiegò che l’umorismo era una delle caratteristiche del palermitano che lo utilizzava per sdrammatizzare qualsiasi problema, soprattutto se lo aveva creato lui, a meno che non si sentisse preso in giro e in quel caso, erano molte le  probabilità  che finisse “a schifio”, la frase di rito era sempre la stessa: “Chi mi stai pigghiannu pu .. .......! Verso la mezzanotte siamo tornati a casa, stanchi ma felici e sazi di una pietanza particolarmente buona come lo sfincione che è diventato un piatto frequente nella mia tavola. Ve lo consiglio perché, oltre ad essere molto buono, è pratico come break al lavoro o durante i picnic.
U sfinciuni

Ingredienti
 Pasta lievita: 250 g. di farina 00,  250 g. di farina 1, lievito 25 g., sale 12 g, un cucchiaio di olio extravergine, 300 ml di acqua tiepida, un pizzico di zucchero.
Condimento: 5 cipolle bianche medie, salsa di pomodoro, 8 filetti di acciughe (  potete aggiungerne) 1 grossa fetta di caciocavallo, tagliata a fette sottili, pepe, 4 cucchiai di olio extravergine
Salsa di pomodoro fresco o di pelati sammarzano ( mettere in padella il pomodoro, aggiungere olio sale  e uno spicchio d’aglio da eliminare alla cottura, e qualche foglia di basilico, fare  cuocere per cinque minuti).
Pangrattato brustolino in padella con un filo d’olio e un filetto di acciuga

Preparazione
Pasta lievita: Mescolate le due farine, aggiungete il sale e mescolate; realizzate una fossetta al centro e mettetevi il lievito, un pizzico di zucchero e due cucchiai di acqua, sciogliere il lievito quindi mescolare con la farina e aggiungere l’olio e piano pian l’acqua e mescolate fino ad ottenere un impasto unico e morbido. E’ importante a questo punto , come diceva mia madre, impastare per cinque minuti circa quindi mettetelo in una ciotola per circa 3 ore, deve raddoppiare di volume, coperto con un plaid per mantenerlo al caldo.
Condimento: Versate le cipolle, tagliate a fettine, in un tegame aggiungete due dita di acqua, 4 cucchiai di olio extravergine, sale e pepe e fate cuocere finché l’acqua non si sarà asciugata. Spegnere dopo aver aggiunto due o tre cucchiai di salsa.

Fase finale
Dopo aver lavorato ancora l’impasto, mettetelo nella teglia e stendetelo con le mani su tutta la superficie, lasciando il bordo leggermente più spesso. Ricoprite la superficie dello sfincione con pezzetti d’acciughe, pressandoli leggermente con le dita, aggiungete le fette di caciocavallo già preparate e infine coprite con le cipolle al sugo e spolverate di pangrattato brustolino. Lasciate riposare lo sfincione per ancora trenta minuti, quindi, dopo aver riscaldato il forno a 220 g., infornate per 20/30 minuti, fino alla cottura.
Ricordate che questa pietanza e molto buono anche il giorno dopo, scaldato in forno, ne guadagna in gusto e leggerezza.

Qualche notizia
Quasi impossibile trovare “U sfinciuni” lontano da Palermo e dintorno: Il nome si fa derivare dal latino spongia e dal greco spòngos, ossia spugna, oppure dall’arabo sfang e basta guardare la pasta lievita e morbida, per capire che non ci sarebbe mai stato termine più appropriato.






giovedì 2 giugno 2016

Tre donne di fede e un mondo di spiritualità




Mia madre mi ripeteva sempre, di fronte a scelte sbagliate: " U Signuri aiuta asini e picciriddi", non ho mai capito se mi considerasse un asino o ...............?
Ma io avevo una triplice protezione: Santa Barbara, patrona di Paternò, Sant'Agata, patrona di Catania e, giunti nel palermitano, Santa Rosalia.

Quanta curiosità ha accompagnato la mia esperienza palermitana e con quanta gioia mio padre, compagno di viaggio alla conoscenza di questa città, intrisa di storia e tradizioni, ci fece apprezzare le sue bellezze. Eravamo arrivati da pochi mesi e già ci trovavamo immersi nel famoso “ Fistino”, “A granni festa” di Santa Rosalia”, la patrona della città: Un mix di folclore e religione che trova il suo culmine nei tradizionali fuochi d’artificio che illuminano a giorno tutto il percorso, dalla Cattedrale al Foro Italico.
 La festa esprimeva il forte legame fra Palermo e la sua Santuzza: La gratitudine e il ringraziamento dei palermitani verso la patrona è così grande, diceva, che la festeggiano due volte l’anno il 15 Luglio, chiamato “U fistinu”, celebrazione popolare, religiosa e folcloristica, che si ripete dal 1625, e il 4 Settembre, commemorazione che assume un carattere esclusivamente religioso. In segno di devozione, a settembre, i cittadini infatti si recano a piedi al santuario sul monte Pellegrino, per salutare la Patrona, nella sua grotta. Immediato è stato l'associazione, di noi tutti, alla festa di Santa Barbara, patrona di Paternò e di Sant’ Agata, patrona di Catania. Molte, infatti, le somiglianze: Era il 1625 e molte città siciliane, martoriate dalla peste, si affidavano alle loro sante protettrici come Santa Rosalia, Sant’Agata e, per me la più familiare, Santa Barbara, le cui storie sono dolorose, antichissime e ricche di significato e il cui denominatore comune è la fede, per la quale queste donne preferiscono la morte,  all'abiura.

Le tre donne abbracciano la vita consacrata e pagano un prezzo altissimo: Rosalia sarà inseguita e perseguitata tanto da essere costretta a nascondersi in una grotta che diverrà luogo di pellegrinaggio dei palermitani; ad Agata,  per obbligarla ad abiurare la sua fede, le vengono strappate le mammelle e infine Barbara, dopo essere stata flagellata con le verghe, sarà decapitata con la spada, per mano del padre. 
La festa di Santa Barbara è prettamente religiosa e viene annunciata con spari di bombe e sfilate di bande musicali per le vie del paese già il 3 novembre, cioè un mese prima della data ufficiale della festa che i paternesi chiamano “ U misi i santa barbara”, seguita dalla festa di Maggio, in occasione dell’eruzione dell’Etna e il 27 Luglio quando si rievoca la traslazione delle reliquie
della Santa.

Le feste di Palermo e Catania hanno molto in comune: Atmosfera carica di emozioni, persone che sciamano nelle vie e nelle piazze, devoti e curiosi che raggiungono numeri altissimi;  a Catania sono giorni di  culto, devozione,  folclore e tradizioni che si ripetono da cinque secoli, paragonabile al Corpus Domini a Cuzco.
Sono tre giorni di solennità, durante le quali vengono realizzati per la ricorrenza, alcuni dolciumi che hanno un riferimento a Sant’Agata, come “i cassateddi di Sant'Aita o i minni ri virgini" che fanno riferimenti alle mammelle che furono strappate alla santa, durante i martirii e “le olivette”,che si riferiscono alla leggenda che ella, inseguita dagli uomini di Quinziano e giunta ormai nei pressi del palazzo Pretorio, si fosse fermata a riposare un istante e allacciarsi un calzare, improvvisamente è comparso un ulivo dove la giovane poté ripararsi e anche cibarsi dei suoi frutti.
Ancora oggi, per rinnovare il ricordo di quell’evento prodigioso, è consuetudine coltivare un albero di ulivo in un aiuola vicino ai luoghi del martirio e consumare, durante i giorni di festa, questi dolci tipici, realizzati con la pasta di mandorle.