“Doppu li tri rè, tutti olè” ( Dopo l’epifania è già
carnevale)
Si avvicinava il
carnevale ed eravamo tutti curiosi di conoscere come il paese, che ci ospitava,
avrebbe organizzato l’evento ma soprattutto come lo vivevano gli abitanti. E
intanto la memoria andava al paesino di Paternò e al suo famoso carnevale, secondo
solo a quello di Acireale: Dall’Epifania alle ceneri, per noi ragazzi era una
festa di colori, musica e coriandoli e si girava per le strade, ballando e
facendo baccano. La ricorrenza vedeva l’arrivo di tanta gente, con ogni mezzo e
da ogni luogo, che invadeva il paese e soprattutto le strade che si trasformavano
in piste da ballo: Tutti avevano voglia di divertirsi in allegria tra maschere
e balli nelle tre piazze principali e lungo la famosa “strata dritta”, il lungo
corso che partiva, dalla piazzetta della chiesa di Santa Barbara fino
all’uscita per Catania. La gente, euforica, lanciava coriandoli, cipria e
faceva chiasso con trombette, tamburi e coperchi di pentole e spesso c’ero
anch’io, accompagnata dal nonno, soprattutto alla sfilata dei due carri
allegorici, le famose macchine infiorate, una delle quali, che rappresentava
del Re burlone, a mezzanotte, veniva bruciata in piazza e noi ragazzi andavamo
dietro alle due bande municipali e alla maschera tradizionale, il fantasma che
cammina, avvolto in un lenzuolo, con una terrificante maschera sul viso che
anche se ci spaventava, volevamo vedere a tutti i costi. La sera, in piazza, tutti,
rigorosamente in maschera, ballavano, mentre la musica usciva dall’altoparlante,
fino a notte alta, alla luce dei lampioni ed era usanza tra le donne di
travestirsi con mantelli neri e maschere, per poter invitare a ballare gli
uomini senza farsi riconoscere; mia madre ci raccontava che quello era l’unico
momento, per molte ragazze del paese, di poter incontrare i fidanzati, fuori
dal controllo dei genitori, e per altre di divertirsi alle spalle di uomini che
le avevano lasciate.
Molte maschere, in omaggio al detto “ a carnalivari semu
tutti uguali” erano improvvisate dalla vita reale per cui il povero si vestiva
da ricco
e gli uomini da donne e
naturalmente
l’avvenimento era
accompagnato dalla parte gastronomica: Nella settimana che precedeva la
quaresima, si gustavano prelibatezze come la pasta “chi cincu pirtusi” (cinque
buchi) o a “rota di carrettu” con ragù di maiale con salsicce e cotenna e
polpette ripiene per chiudere, il pasto, con le crespelle. Che bei ricordi! Per
qualche giorno, tutti si sentivano padroni del mondo, liberando la propria
fantasia.
Ed ora, nel palermitano, ci chiedevamo come si svolgesse il carnevale, nel
capoluogo siciliano. Lo zio Guido, la nostra fonte, ci raccontò che la festa era divertimento per
tutte le classi sociali, si assisteva alle sfilate di carri, spettacoli in maschere
e cuccagne, ma con una netta distinzione tra i ricchi che il
carnevale lo trascorrevano, soprattutto, all'interno dei saloni di palazzi privati o
nei circoli, facendo allestire festeggiamenti fastosi, e la
gente comune che viveva la festa per strada, nei rioni con grande baldoria di grandi ma in particolare dei ragazzi che seguivano le sfilate di carri, a
gruppi, divertendosi, lanciando i “pittiddi” (coriandoli) ma anche i
“cuoppi”,coppi di carta ripieni di borotalco sul viso dei passanti e aspettando
con ansia l’uscita delle maschere più caratteristiche “u nannu e a nanna”che
rappresentavano l’anno vecchio da sbeffeggiare, il capro espiatorio ma anche la
saggezza, i due vecchi che, dopo una specie di processo, venivano condannati a
morte e quindi bruciati e e i ragazzi erano talmente affascinati dal fuoco da
sembrare ipnotizzati. Sono giorni di travestimenti e burle, così ci ha
raccontato lo zio, un periodo di spensieratezza dove tutto è consentito e dove
non manca la parte gastronomica con le lasagne “cacate”(1) con la carne di
maiale e a “sasizza”per
concludersi con
il dolce carnascialesco, per eccellenza, il cannolo, di cui si hanno, della sua
origine, molte versioni.
Il fascino del racconto sul carnevale palermitano e
ancora di più dei ricordi paternesi si scontrò con la realtà del
paese, in cui vivevamo da mesi. Si sentiva aria di festa, soprattutto, per la
produzione dolciaria, tipica del carnevale, dei piatti succulenti di cui
sentivamo l’odore uscire da tante cucine, ma la festività collettiva si
riassumeva nell'ultimo giorno, in parte per le strade e, per pochi, in un
salone privato: Il martedì grasso, il paese era in fermento,soprattutto, alle luci dell’imbrunire,
momento in cui molte persone, vestite in
maschera, soprattutto uomini, andavano per strada, facendo il giro delle
viuzze, inseguite dai bambini che gridavano e li spaventavano, tirando loro i
botti e il borotalco sui vestiti. Il rito, così ci raccontarono i vcini, prevedeva che
le famiglie, a cui si faceva richiesta,
nel passaggio, li invitassero in casa, per
offrire loro da bere, anche se, spesso, erano già ubriachi: Le maschere eseguivano
il solito rituale, muovendosi in modo goffo,
tentando dei passi come in una danza
folcloristica e spesso coinvolgendo i padroni di casa e dopo aver bevuto ancora
qualche bicchierino, barcollando, tornavano in strada, cantando e
fischiettando. La serata di carnevale si concludeva, per chi poteva
permetterselo, nel salone delle “feste”, così chiamavano il salone per matrimoni
del paese, dove si concludeva la festività, con musica e ballo, fino a notte
alta. Ma era soprattutto la festa dei ragazzi che si divertivano tirando i
“pittiddi”, borotalco e i petardi, ma anche aspettando la cena del martedì
grasso che era anche il momento della pignoccata e in particolare dei cannoli,
i dolci tipici della festa, chiamati così perché la forma è simile alla canna
di fiume. Ricordo quando, a Paternò, rubacchiavo ditate di ricotta farcita
mentre la nonna preparava le “bucce”, così in Sicilia vengono chiamate le
cialde, e con quanta golosità guardavo le “ guantiere”, i vassoi, pieni di
cannoli,decorati con granelle di pistacchi, di nocciole, di castagne o di
ciliegie candite; e ricordo le zie chiedere la supervisione della nonna , quando si
cimentavano nella preparazione delle cialde con i cilindretti di legno o di
metallo, che richiedeva maestria e competenza.
Naturalmente oggi non occorre
cercare canne o cilindretti di metallo per preparare le cialde, potete
comprarle in qualsiasi supermercato o negozio che vende prodotti da forno, e quindi io
mi limiterò a spiegarvi come farcire la ricotta e come preparare i cannoli, una delle specialità più conosciute dalla
pasticceria italiana.
Cannolo siciliano
La cialde
Ingredienti per il ripieno
300 g.
di ricotta asciutta ( mettere in un colino per far scolare tutto il siero, che
renderebbe troppo floscia la crema), 100 g. di zucchero, zucchero a velo, granella
di pistacchi, nocciole e mandorle e arance candite a pezzetti o pezzetti di
cioccolato fondente.
Preparazione
Lavorare la ricotta e lo zucchero con una frusta o un
frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema liscia, aggiungendo
pezzetti di arance candite o pezzettini di cioccolata fondente.
Presentazione del cannolo
Inserire la crema dentro le cialde o bucce, con l’aiuto di
un cucchiaino; spianare le estremità e intingerle nei granelli di pistacchi o
nocciole o mandorle, quindi spolverare con lo zucchero a velo.
Servire freddi ( conservare in frigo massimo due giorni).
(1) Le lasagne, che somigliano alle pappardelle, ma con il
bordo merlettato, sono chiamate, dai siciliani,“cacate” per evidenziarne l'altezzosità; il significato è associabile a “ stare sulle sue “ o si sente tutto
lei”, o “se la tira”, rivolto ad una donna.
Qualche notizia in più
Il termine “cannolo” o “cannolu”, in dialetto, sta per
piccolo tubo; sulla sua origine si hanno molte versione:
Si deve a Cicerone,
questore di lilibeo, l’odierna Marsala, tra il 76 e 75 A.C. la definizione “ Tubus
farinarius, dolcissimo, edulio ex lacte factus”( il cannolo farinaceo fatto di
latte), dopo aver apprezzato il gusto di un dolce, anche se non era ancora il
cannolo, che conosciamo oggi.
Nel 1635, un anonimo sacerdote dell’isola esalta
in un’ottava la magnificenza del cannolo anche con metafore:
“Beddi cannola di Carnalivari,
megghiu vuccuni a lu munnu ‘un ci nn’è:
Su biniditti spisi, li dinari:
ogni cannolu è scettru
d’ogni Re.
Arrivanu li donni a disistari; lu cannolu è la virga di Mosè
cu nun ni mangia si fazza ammazzari,
cu li disprezza è un gran Curnutù ‘affe!
Un’altra fonte
racconta che i cannoli siano stati preparati, per la prima volta, in un
convento di clausura, nei pressi
di Caltanissetta dove, in occasione del carnevale, le monache inventarono, per scherzo,
un dolce, il cannolo, il cui nome viene da canna (rubinetto) e da cui fecero
uscire, invece che dell’acqua, crema di ricotta. Quello scherzo divenne presto
un’immancabile squisitezza di tutto l’anno.
Ma forse la più probabile è quella che racconta di molte donne dell’harem lasciate libere,
quando i saraceni evacuarono l’isola, che rifugiatesi in un convento, si
convertirono e collaborarono con le suore in cucina, dando vita a tanti dolci
tra cui i cannoli. Il gusto corposo e forte degli ingredienti rimanda, infatti, alla cultura culinaria araba, come
l’etimologia di Caltanissetta ” Kalt El Missa” che letteralmente significa “Il
castello delle donne” e dal nisseno si diffonderà prima a Palermo e,
da lì, in tutta la Sicilia. Gran parte della notorietà e diffusione planetaria del cannolo si deve ai
pasticceri di Palermo, che hanno contribuito a stabilizzare la ricetta come la
conosciamo oggi perché in origine era un ripieno di crema e solo successivamente
si aggiunse la variante al cioccolato e alla ricotta; oggi il cannolo lo si mangia in
molti modi, con crema di pistacchio, al limone, con il gelato.