martedì 27 settembre 2016

Favignana: Le donne e l'incucciata

Nei mesi primaverili, mio padre amava tornare a Favignana ed io ero felice di accompagnarlo. Trascorrevamo il fine settimana, nell'isola, rivisitando i luoghi della sua infanzia, incontrando vecchi compagni di giochi e aspettando che la fedele Maria, da giovane lavorava per la famiglia, già avvisata, preparasse “ u cuscusu”, il piatto rappresentativo dell'isola con il pesce che mio padre aveva acquistato al molo. Ormai le nostre visite avevano qualcosa rituale, come rituale era la richiesta alla vecchia Maria, di farmi assistere alla preparazione "ru cuscusu", che esperienza!
Maria, quella tenera vecchietta, mi aspettava con gioia e sorridendo mi confermava che potevo assistere alla preparazione du “cuscusu”, come lo chiamano i favignanesi, ricordandomi che la preparazione di questo piatto aveva un alone di sacralità e che si tramandava da madre in figlia.
In quella grande cucina, riscoprivo un mondo di antiche tradizioni: Tante donne,  forse parenti e amiche , sedute attorno alla tavola dove era posta, la mafaradda  che conteneva la semola a grana grossa, il “lemmo” e una ciotola di acqua salata. Ero affascinata da quelle donne semplici e amabili e dalla naturalezza con cui lavoravano manualmente la semola: le loro dita bagnate, con  movimenti veloci e rotatorii formavano piccolissimi grumi e li  depositavano nel lemmo, dove continuavano il movimento con il palmo della mano, unto di olio, che permetteva di separare i grumetti tra loro; procedimento lungo, stancante ma particolarmente interessante!
Pensavo che dopo la cottura, ( la cuscusiera e la pentola erano state sigillate ca “cuddura”, pasta molle di acqua e farina), ci si potesse sedere a tavola, invitati anche dal  profumo che si spandeva intorno ma, come disse Maria, dovevo ancora pazientare perché "u cuscusu” doveva riposare per circa mezz'ora, con coperchio e con sopra un panno di lana e poi finalmente ammorbidito con il brodo della zuppa e arricchito con il suo pesce, che faceva da corona, poteva essere gustato. 
E finalmente, ho mangiato "u cuscusu", buono, ricco di sapore e anche molto scenografico; anche se l’attesa è stata lunga, ne è valsa la pena!
Riflettendo, sarà questo il motivo per il quale, oggi, le donne privilegiano il couscous precotto?


Cenni storici

Chiamato cuscus, kuskus ( tritato in minutissimi pezzi), è  cuscusu in provincia di Trapani, è uno dei tanti casi in cui le varie dominazioni in Sicilia hanno influenzato la cucina siciliana.
La tradizione culinaria di questi chicchi ha viaggiato dall’Africa fino a raggiungere le coste della Sicilia per poi diffondersi in tutto il continenti. Lo sviluppo di un simile piatto, però, non può spiegarsi semplicemente con l’espansione militare dell’Islam.
Esso, infatti attecchisce tra tutte le popolazioni perché è un piatto base, povero che può diventare importante se arricchito con carne e verdure o col pesce, diventando parte di ogni tradizionale cucina locale; ovviamente nella cucina egadina, il couscous è di pesce.
La leggenda  tramanda che furono i pescatori del trapanese ad importare il couscous dalle coste della Tunisia e dargli le caratteristiche tipiche locali:“I pescatori trovandosi, per parecchi mesi, nelle acque di Sfax, in Tunisia, per pescare le spugne, familiarizzarono con le popolazioni arabe fino ad assorbire le abitudine e soprattutto la gastronomia. E’ fu così che scoprirono quel piatto povero, il couscous che i tunisini, allora popolo di pastori, nomadi, condivano con le verdure e la carne di montone; i pescatori, ritornati a casa, insegnarono alle loro donne quel piatto economico ma saporito, sostituendo il montone con ciò di cui erano più ricchi, il pesce.

lunedì 19 settembre 2016

"Favi a cunigghiu chi giri" e v'arricriati!

Giornata uggiosa, quasi autunnale, decido di preparare dei legumi e come ne “La recherche …….” prustiana, la mia memoria involontaria mi riporta a quella lontana sera di novembre e allo strano piatto che nonno Nino, con cui cenavo tutte le sere da quando era mancata la nonna, m’invitava a gustare, “i favi a cunigghiu chi giri”, un piatto di legumi e verdura.
 Vedendo, sulla tavola, un  piattino, accanto alla minestra, chiesi al nonno a cosa servisse e la spiegazione fu chiara, raccogliere le bucce delle fave, cioè lo scarto rimasto, spiegandomi: Il commensale porta il legume alla bocca con il pollice e l’indice e, con gli incisivi,  provoca una fessura da dove, sempre con l’aiuto delle due dita, fa uscire il contenuto dalla buccia che viene, poi, lasciata nel piattino e la pietanza prende nome di “Favi a cunigghiu” dalla somiglianza con lo strano e curioso modo usato dai conigli, di incidere con i denti i semi, per mangiarne il contenuto. Trascorsi la serata con nonno Nino che cercava di insegnarmi come usare le dita e gli incisivi, ma inutilmente; quando tornai dalla mamma, raccontai l’esperienza e la difficoltà di mangiare le fave, come voleva l nonno e lei, sorridendo, mi spiegò che quei legumi erano state cucinati, alla vecchia maniera, intere e quindi, per fare uscire il contenuto del legume, usavano gli incisivi per creare un’apertura; ma da tempo, continuò la mamma, le fave si cuociono togliendo la parte superiore nera del legume, prima della cottura, creando un’apertura naturale che permetta, spingendo con il pollice e l’indice, la fuoriuscita del contenuto, senza difficoltà e mi raccontò anche un’altra versione dell’origine del nome della pietanza, che risaliva al dopoguerra: Molte madri, disse, per non far conoscere le difficoltà della famiglia e far credere al vicinato di cucinare carne, nell’avvisare la figlia, che giocava in cortile con gli amichetti, che il pranzo o la cena era pronta, gridava “trasi ca i favi e cunigghiu su pronti” ma la bimba a tavola trovava fave secche in zuppa. Rilevante è che questo piatto povero, di antica tradizione siciliana, tramandato quasi identico al ,piatto originale, come il mangiare le fave con le mani, ha un gusto genuino e straordinariamente gustoso e l’abbinamento delle fave con bietole crea un brodetto denso e saporito e per questo ve lo consiglio.


Fave a cunigghiu chi giri ( fave a coniglio con bietole)

 Ingredienti
250 g di fave secche con buccia ( le migliori sono le fave di Leonforte) a bagno in acqua x 12 ore;
( si consiglia di metterle in ammollo al mattino); 2 mazzi di bietole; 1 aglio in camicia; acqua; sale; olio q.b.

Preparazione
Mettere le fave a bagno, per 12 ore circa, quindi scolarle e dopo aver tolto, con un coltello, la capocchietta nera ( l’occhio della fava) sciacquateli e versateli in una pentola con abbondante acqua salata, con foglie d’alloro e lo spicchio d’aglio mettete sul fuoco. 
Quando fa il primo bollore, abbassare la fiamma e lasciare cuocere a fuoco moderato, con coperchio semichiuso, per circa 1h ma bisogna controllare spesso la cottura, assaggiando le fave e mescolando, ogni tanto, con il cucchiaio di legno. A questo punto, tolto l’aglio, aggiungere la bietola, precedentemente lavata e scolata. Da quando riprenderà il bollore, far cuocere ancora 15 m, quindi versare in una terrina e condire con olio extravergine d’oliva e come dicono i siciliani “arricriativi”!


- Arricriarsi: E’ un verbo che, nel pronunciarlo, i siciliani si “riempiono la bocca” perché descrive non solo il piacere di ciò che hanno mangiato, ma uno stato d’animo.

giovedì 15 settembre 2016

L' agrodolce e la sua storia



La salsa agrodolce, nata in Cina dove accompagnava i cibi già cotti, è introdotta, dagli Arabi, nelle cucine europee, insieme all’uso di uva, pinolo e mandorle, dove viene usata come ingrediente, durante la preparazione e la cottura di un piatto: Elementi principali sono sempre l’aceto e lo zucchero ai quali poi possono essere aggiunti altre spezie o ingredienti, tutti secondo la soggettiva preferenza.
Questa salsa, quindi, ha un sapore antico che narra non solo la storia e la gastronomia ma anche la scienza dietetica: La logica del temperamento degli opposti e i metodi di conservazione perché sia lo zucchero che l'aceto preservano i cibi, permettendo di gustare la pietanza nella sua pienezza.

Prima dell’arrivo degli arabi e del loro zucchero di canna, l’agrodolce si dolcificava con il miele e con l’aceto;
il “ nuovo miscuglio", invece, creando un contrasto più netto tra i sapori, come sostenevano anche i medici latini," i contrasti si sanano con i contrari", permette di preservare i cibi dal deterioramento, prolungandone il tempo di consumo.
E proprio in Sicilia la salsa agrodolce trova il luogo ideale per diventare una tecnica di grande vigore, ammorbidito dalla sostituzione dell’aceto con gli agrumi e del miele con lo zucchero e da qui si diffonde anche in altre regioni del Mediterraneo: L’abilità del cuoco del tempo é quella di mescolare ingredienti e tecniche di cotture per ottenere un piatto bilanciato nel gusto, negli ingredienti e nella consistenza. ( Un piatto in agrodolce, va consumato almeno dopo un giorno di riposo e assestamento ma più passano i giorno, più è buono).
Accanto alla nuova cucina sorge anche una letteratura gastronomica. La Sicilia  dà i natali ad importanti personalità del mondo culinario: I cuochi Labdaco di Siracusa e Meteco Siculo, quest'ultimo, autore del primo libro di cucina della storia, Archistrato di Gela ( o di Siracusa ?), considerato il padre dei critici dell’arte culinaria che scrisse il noto poema “Gastronomia”,  nel quale elenca cibi e vivande, incontrate durante i suoi lunghi viaggi ma concludendo che solo in Sicilia ha trovato il buon gusto”.






Il vecchio Marx e la guerriera!

Avevamo conosciuto lo zio Pepè, in stazione, all’arrivo a Palermo e la zia Mariuccia nel paesino dove ci eravamo trasferiti e dove lei insegnava, da tanti anni. 
Era molto gentile e affettuosa, quando poteva, prima di andare a scuola, passava da casa a prendere un caffè e intanto raccontava della famiglia Lombardo, “per metterti in guardia”, diceva a mia madre che, proprio quella mattina, le comunicò che il vecchio Marx, ospite della zia Olga, da quando era rimasto solo, ci aveva invitati, la domenica successiva, a pranzo, “ per darci il benvenuto e farci conoscere il resto della famiglia”. Ricordo ancora lo sguardo della zia Mariuccia, il suo sorriso ironico, e la reazione di mia madre che, preoccupata, chiedeva spiegazioni: “Mi hai fatto tornare indietro con il tempo, rispose la zia, a quando ebbi lo stesso invito e con le stesse modalità, non voglio parlarti della mia esperienza, ti dico solo che il suocero ama molto divertirsi, giocare a mettere in difficoltà, quindi ti consiglio di stare molto attenta”.
E, per giorni, mia madre fu in trepidazione, e ce ne accorgemmo tutti soprattutto mio padre che, dopo aver saputo, cercò di tranquillizzarla, spiegando che la zia Mariuccia era esagerata, se non, addirittura, prevenuta nei confronti di suo padre; nei giorni, che precedettero la fatidica domenica, mia madre ci parlò del nonno con il quale dovevamo fare bella figura, ci consigliò di essere attenti e, se in difficoltà, di seguirla con lo sguardo. Le parole della zia Mariuccia,”il suocero si diverte a mettere in difficoltà”, ci disse, mi fanno tornare indietro col tempo, facendo riemergere lontani e drammatici  ricordi: Quel telegramma di auguri, arrivato il giorno del matrimonio,” sarete domani ciò che siete oggi”, inviato dal vecchio Marx che non aveva accettato quell'unione, avvenuta in tutta fretta e senza il suo consenso, accompagnato dal “licenziamento immediato” del figlio che, senza lavoro, per qualche anno, si occuperà della contabilità delle entrate, come la vendita dei tarocchi, e degli interessi dei nonni. E, dulcis in fundo, l’ultima vendetta quando, alcuni anni dopo, richiamò il figlio, a Palermo,  riassumendolo,  ma con la clausola “naturalmente devi arrivare, da solo”.
E mio padre tornò a Palermo da solo, ospite dei genitori e riprese il suo lavoro, per dare certezza economica alla famiglia; e furono tanti gli anni di lontananza, fino alla morte della nonna e, quasi contemporaneamente, al pensionamento del vecchio Marx che, finalmente, gli comunicava ”ora puoi riunire la famiglia”.
Era chiaro che mia madre, e lo avevamo capito bene, non avrebbe più permesso prevaricazioni o atteggiamenti provocatori, da nessuno e soprattutto dall'uomo dalla barba bianca. 
E il giorno, dell’incontro arrivò e noi ragazzi eravamo certi di assistere ad uno scontro titanico tra due personalità e l’abbigliamento di mia madre, tailleur maschile con cappello a cloche, faceva presagire reazioni forti. Noi, tutti molto eleganti, la mamma raffinata, nel suo completo alla moda, io e mia sorella in completino bianco e i miei fratelli in giacca e pantaloncino, i ragazzi, allora, non portavano pantaloni lunghi, e papà bello e affascinante, in abito blu, arriviamo a casa della zia Olga, accolti dal vecchio Marx che, prendendo per mano mia madre, si diresse, seguita da noi tutti, in salotto, dove trovammo gli zii Pepè e Mariuccia. Il momento di silenzio fu interrotto da mia sorella Agnese che, con la dialettica che l’aveva sempre contraddistinta, si rivolse al vecchio Marx, dicendo:”Nonno voglio dirti, anche a nome dei miei fratelli, che ti voglio bene; quante volte ho fantasticato su di te, guardando l’unica fotografia in bianco e nero, in cui mostri, attraverso la postura, gli occhi fieri e la folta barba bianca, un immagine sicura e forte e quante volte mi sono chiesta se anche tu mi avessi pensata e immaginata, tante volte, ho sentito la tua assenza, la mancanza di un bacio sulla guancia, i vizi, che i nonni materni, invece, mi hanno regalato a piene mani, il non essere difesa da papà e mamma, quando facevo i capricci; ma sappi che io e i miei fratelli ti vogliamo bene lo stesso, nella maniera che abbiamo imparato da soli.
Il vecchio Marx, dopo un momento di esitazione, la baciò sulla fronte e l’abbracciò forte, facendo lo stesso anche con noi e poi, rivolgendosi a mia madre disse: Hai fatto un buon lavoro, sei stata madre e padre insieme, hai dimostrato coraggio e dignità, non potevi fare di meglio e ti ringrazio e, prendendola sotto braccio, si avviò verso la sala da pranzo, seguito da tutti noi .
Mia madre aveva vinto, finalmente aveva dato scacco matto, al pater familias!       



martedì 13 settembre 2016

Il carnevale, le suore di clausura e i cannoli



“Doppu li tri rè, tutti olè” ( Dopo l’epifania è già carnevale)

 Si avvicinava il carnevale ed eravamo tutti curiosi di conoscere come il paese, che ci ospitava, avrebbe organizzato l’evento ma soprattutto come lo vivevano gli abitanti. E intanto la memoria andava al paesino di Paternò e al suo famoso carnevale, secondo solo a quello di Acireale: Dall’Epifania alle ceneri, per noi ragazzi era una festa di colori, musica e coriandoli e si girava per le strade, ballando e facendo baccano. La ricorrenza vedeva l’arrivo di tanta gente, con ogni mezzo e da ogni luogo, che invadeva il paese e soprattutto le strade che si trasformavano in piste da ballo: Tutti avevano voglia di divertirsi in allegria tra maschere e balli nelle tre piazze principali e lungo la famosa “strata dritta”, il lungo corso che partiva, dalla piazzetta della chiesa di Santa Barbara fino all’uscita per Catania. La gente, euforica, lanciava coriandoli, cipria e faceva chiasso con trombette, tamburi e coperchi di pentole e spesso c’ero anch’io, accompagnata dal nonno, soprattutto alla sfilata dei due carri allegorici, le famose macchine infiorate, una delle quali, che rappresentava del Re burlone, a mezzanotte, veniva bruciata in piazza e noi ragazzi andavamo dietro alle due bande municipali e alla maschera tradizionale, il fantasma che cammina, avvolto in un lenzuolo, con una terrificante maschera sul viso che anche se ci spaventava, volevamo vedere a tutti i costi. La sera, in piazza, tutti, rigorosamente in maschera, ballavano, mentre la musica usciva dall’altoparlante, fino a notte alta, alla luce dei lampioni ed era usanza tra le donne di travestirsi con mantelli neri e maschere, per poter invitare a ballare gli uomini senza farsi riconoscere; mia madre ci raccontava che quello era l’unico momento, per molte ragazze del paese, di poter incontrare i fidanzati, fuori dal controllo dei genitori, e per altre di divertirsi alle spalle di uomini che le avevano lasciate.
Molte maschere, in omaggio al detto “ a carnalivari semu tutti uguali” erano improvvisate dalla vita reale per cui il povero si vestiva da ricco  e gli uomini da donne e naturalmente  l’avvenimento era accompagnato dalla parte gastronomica: Nella settimana che precedeva la quaresima, si gustavano prelibatezze come la pasta “chi cincu pirtusi” (cinque buchi) o a “rota di carrettu” con ragù di maiale con salsicce e cotenna e polpette ripiene per chiudere, il pasto, con le crespelle. Che bei ricordi! Per qualche giorno, tutti si sentivano padroni del mondo, liberando la propria fantasia.

Ed ora, nel palermitano, ci chiedevamo come si svolgesse il carnevale, nel capoluogo siciliano. Lo zio Guido, la nostra fonte, ci raccontò che la festa era divertimento per tutte le classi sociali, si assisteva alle sfilate di carri, spettacoli in maschere e cuccagne, ma con una netta distinzione tra i ricchi che il carnevale lo trascorrevano, soprattutto, all'interno dei saloni di palazzi privati o nei circoli, facendo allestire festeggiamenti fastosi, e la gente comune che viveva la festa per strada, nei rioni con grande baldoria di grandi  ma in particolare dei ragazzi che seguivano le sfilate di carri, a gruppi, divertendosi, lanciando i “pittiddi” (coriandoli) ma anche i “cuoppi”,coppi di carta ripieni di borotalco sul viso dei passanti e aspettando con ansia l’uscita delle maschere più caratteristiche “u nannu e a nanna”che rappresentavano l’anno vecchio da sbeffeggiare, il capro espiatorio ma anche la saggezza, i due vecchi che, dopo una specie di processo, venivano condannati a morte e quindi bruciati e e i ragazzi erano talmente affascinati dal fuoco da sembrare ipnotizzati. Sono giorni di travestimenti e burle, così ci ha raccontato lo zio, un periodo di spensieratezza dove tutto è consentito e dove non manca la parte gastronomica con le lasagne “cacate”(1) con la carne di maiale e a “sasizza”per  concludersi con il dolce carnascialesco, per eccellenza, il cannolo, di cui si hanno, della sua origine, molte versioni.

Il fascino del racconto sul carnevale palermitano e ancora di più dei ricordi paternesi si scontrò con la realtà del paese, in cui vivevamo da mesi. Si sentiva aria di festa, soprattutto, per la produzione dolciaria, tipica del carnevale, dei piatti succulenti di cui sentivamo l’odore uscire da tante cucine, ma la festività collettiva si riassumeva nell'ultimo giorno, in parte per le strade e, per pochi, in un salone privato: Il martedì grasso, il paese era in fermento,soprattutto, alle luci dell’imbrunire,  momento in cui molte persone, vestite in maschera, soprattutto uomini, andavano per strada, facendo il giro delle viuzze, inseguite dai bambini che gridavano e li spaventavano, tirando loro i botti e il borotalco sui vestiti. Il rito, così ci raccontarono i vcini, prevedeva che le famiglie, a cui si faceva richiesta,  nel passaggio, li invitassero in casa, per offrire loro da bere, anche se, spesso, erano già ubriachi: Le maschere eseguivano il solito rituale, muovendosi in modo goffo,  tentando dei passi come in una danza folcloristica e spesso coinvolgendo i padroni di casa e dopo aver bevuto ancora qualche bicchierino, barcollando, tornavano in strada, cantando e fischiettando. La serata di carnevale si concludeva, per chi poteva permetterselo, nel salone delle “feste”, così chiamavano il salone per matrimoni del paese, dove si concludeva la festività, con musica e ballo, fino a notte alta. Ma era soprattutto la festa dei ragazzi che si divertivano tirando i “pittiddi”, borotalco e i petardi, ma anche aspettando la cena del martedì grasso che era anche il momento della pignoccata e in particolare dei cannoli, i dolci tipici della festa, chiamati così perché la forma è simile alla canna di fiume. Ricordo quando, a Paternò, rubacchiavo ditate di ricotta farcita mentre la nonna preparava le “bucce”, così in Sicilia vengono chiamate le cialde, e con quanta golosità guardavo le “ guantiere”, i vassoi, pieni di cannoli,decorati con granelle di pistacchi, di nocciole, di castagne o di ciliegie candite; e ricordo le zie chiedere la supervisione della nonna , quando si cimentavano nella preparazione delle cialde con i cilindretti di legno o di metallo, che richiedeva maestria e competenza.
Naturalmente oggi non occorre cercare canne o cilindretti di metallo per preparare le cialde, potete comprarle in qualsiasi supermercato o negozio che vende prodotti da forno, e quindi io mi limiterò a spiegarvi come farcire la ricotta e come preparare i cannoli, una delle specialità più conosciute dalla pasticceria italiana.


Cannolo siciliano
La cialde
Ingredienti per il ripieno
300 g. di ricotta asciutta ( mettere in un colino per far scolare tutto il siero, che renderebbe troppo floscia la crema), 100 g. di zucchero, zucchero a velo, granella di pistacchi, nocciole e mandorle e arance candite a pezzetti o pezzetti di cioccolato fondente.
Preparazione
Lavorare la ricotta e lo zucchero con una frusta o un frullatore ad immersione fino ad ottenere una crema liscia, aggiungendo pezzetti di arance candite o pezzettini di cioccolata fondente.
Presentazione del cannolo
Inserire la crema dentro le cialde o bucce, con l’aiuto di un cucchiaino; spianare le estremità e intingerle nei granelli di pistacchi o nocciole o mandorle, quindi spolverare con lo zucchero a velo.
Servire freddi ( conservare in frigo massimo due giorni).


(1) Le lasagne, che somigliano alle pappardelle, ma con il bordo merlettato, sono chiamate, dai siciliani,“cacate” per evidenziarne l'altezzosità; il significato è associabile a “ stare sulle sue “ o si sente tutto lei”, o “se la tira”, rivolto ad una donna.


Qualche notizia in più

Il termine “cannolo” o “cannolu”, in dialetto, sta per piccolo tubo; sulla sua origine si hanno molte versione:
Si deve a Cicerone, questore di lilibeo, l’odierna Marsala, tra il 76 e 75 A.C. la definizione “ Tubus farinarius, dolcissimo, edulio ex lacte factus”( il cannolo farinaceo fatto di latte), dopo aver apprezzato il gusto di un dolce, anche se non era ancora il cannolo, che conosciamo oggi.
Nel 1635, un anonimo sacerdote dell’isola esalta in un’ottava la magnificenza del cannolo anche con metafore:

“Beddi cannola di Carnalivari,
megghiu vuccuni a lu munnu ‘un ci nn’è:
Su biniditti spisi, li dinari:
ogni cannolu è scettru d’ogni Re.
Arrivanu li donni a disistari; lu cannolu è la virga di Mosè
cu nun ni mangia si fazza ammazzari,
cu li disprezza è un gran Curnutù ‘affe!

Un’altra fonte racconta che i cannoli siano stati preparati, per la prima volta,  in un convento di clausura, nei pressi di Caltanissetta dove, in occasione del carnevale, le monache inventarono, per scherzo, un dolce, il cannolo, il cui nome viene da canna (rubinetto) e da cui fecero uscire, invece che dell’acqua, crema di ricotta. Quello scherzo divenne presto un’immancabile squisitezza di tutto l’anno.
Ma forse la più probabile è quella che racconta di molte donne dell’harem lasciate libere, quando i saraceni evacuarono l’isola, che rifugiatesi in un convento, si convertirono e collaborarono con le suore in cucina, dando vita a tanti dolci tra cui i cannoli. Il gusto corposo e forte degli ingredienti  rimanda, infatti, alla cultura culinaria araba, come l’etimologia di Caltanissetta ” Kalt El Missa” che letteralmente significa “Il castello delle donne” e dal nisseno si diffonderà prima a Palermo e, da lì, in tutta la Sicilia. Gran parte della notorietà e diffusione planetaria del cannolo si deve ai pasticceri di Palermo, che hanno contribuito a stabilizzare la ricetta come la conosciamo oggi perché in origine era un ripieno di crema e solo successivamente si aggiunse la variante al cioccolato e alla ricotta; oggi il cannolo lo si mangia in molti modi, con crema di pistacchio, al limone, con il gelato.







venerdì 9 settembre 2016

U cuccidatu: Il dolce regale palermitano



 Vigilia di Natale: Stavamo preparando il tavolo per giocare a carte a e alla tombola, quando arrivarono gli zii palermitani, carichi di regali e, per noi fratelli, la festa continuava nella gioia e nella curiosità di conoscere meglio i nuovi parenti ma, soprattutto, per me, di scoprire cosa contenessero i pacchetti regalo; un libro per Agnese, i maglioncini per Antonio e Gaetano e un giocattolo per me e mentre i miei fratelli ringraziavano, io ero alle prese con il dolce che aveva portato lo zio Guido che, nel porgerlo a mia madre, ne decantava la squisitezza, ricordando che “u cucciddatu”, così lo chiamò, era stato preparato dal suo pasticciere di fiducia, una vera delizia, disse. Fui affascinata da quel dolce, a forma di corona, impreziosita da ciliegie candite che sembrano grossi rubini , caramelline luccicanti come perle e zucchero colorato a forma di codini, "i diavulicchi",che arricchiscono la superficie merlettata.
Ma io volevo conoscerne il gusto e quindi, con trepidazione, aspettavo la famosa pausa dal gioco che permetteva di assaggiare qualche dolcetto, accompagnato da un bicchiere di liquore; e il momento arrivò, mia madre portò a tavola, su un piatto da portata, il famoso "cucciddatu” e dopo che lo zio Guido lo ebbe tagliato in piccoli tocchi, mi fiondai a prenderne uno, rimproverata aspramente da mia madre che non capiva perché fossi stata così scortese, non aveva capito che volevo conoscerne il sapore che, dopo il primo morso, mi fu familiare: Osservai il ripieno, riconobbi molti degli ingredienti, forse ce n’era qualcuno in più , ma anche il gusto simile alle lune che mia madre e la mia nonna materna ci preparavano a Natale. A differenza du "cucciddatu", quello paternese era un  dolce povero e spoglio, creato dalle suore del Monastero della SS Annunziata di questo paese, e specchio di quel luogo semplice e umile, espressione di religiosità. Ero sul punto di chiedere spiegazioni a mia madre, quando intervenne lo zio Guido che, mi stava osservando divertito e, prima che potessi porre la domanda, mi spiegò che “ u buccellato” era un dolce della tradizione, diffuso in tutta l’isola e consumato nel periodo natalizio e avendo colto i miei dubbi, mi spiegò che il dolce poteva essere simile a quello di altre zone, spesso con forma e nome  diversi e lo stesso valeva per il ripieno, che mantenendo l’ ingrediente principale, i fichi secchi, variava a seconda della zona in cui veniva preparato. Lo zio, affettuoso e gentile e cultore della storia e delle tradizioni della sua città, si sedette accanto a me e cominciò a raccontare del dolce palermitano per eccellenza e delle sue origini.
Esordì con queste parole: “Avrai notato in estate, i fichi asciugati al sole e infilati in lunghi fili di spago o”incannati”, cioè infilzati in spiedini di canne, ecco parte di questi serviranno in inverno per preparare i buccellati, questi dolci di natale che hanno origine lontana. Anticamente, infatti, a Palermo, durante la novena natalizia, le donne anziane della famiglia, per rallegrare le serate, preparavano diversi piatti tra cui il buccellato a forma di ciambella, una sorta di augurio e di potere magico, la cui farcitura, al suo interno, e la cottura al forno permettevano una lunga conservazione e la possibilità di essere consumato nell’intero periodo festivo ed essere anche utilizzato come centro tavola, prima di essere consumato come dessert. Per la preparazione dell’impasto, le donne utilizzavano strumenti semplici come una tavola in legno levigata, che sostenuta da due sedie diventava il piano di lavoro “ u scannaturi” , più basso rispetto ad un normale tavolo per permettere loro di impastare con più forza e un ferretto, preparato dal fabbro, chiamato “stigghia pù cucciddatu” che ad una delle estremità aveva una ruota dentata che serviva a disegnare una specie di merlettatura e punzecchiare la pasta frolla affinché si vedesse la farcitura. Non volevo crederci, ero rapita dal racconto! E lo zio, che aveva colto il mio interesse continuò dicendo che fatto in casa o in pasticceria, “u cucciddatu” non poteva essere presentato privo dei “diavulicchi”, codine di zucchero multicolore che richiamavano la forma della coda dei diavoli e che, simbolicamente avevano il compito di custodire il ripieno di questo dolce, uno dei più preziosi della cucina siciliana: Come gli  elementi decorativi, una serie di figure mitologiche, rappresentate in un affresco presente nel palazzo della Zisa, a Palermo, nella volta dell’arco d’ingresso alla sala della fontana l’IWAN, avevano il compito di custodire gelosamente il grandissimo tesoro in monete d’oro, nascosto nel palazzo,, così “i diavulicchi”  del buccellato custodivano il ripieno di uno dei dolci più prezioso della cucina siciliana. Incredibile! Sarei rimasta ad ascoltarlo per ore, ma il tempo era trascorso in un baleno quindi, dopo aver ringraziato lo zio e i parenti tutti, andai, soddisfatta, a dormire. Era stata una splendida serata! Ma da quel giorno, mia madre , che amava arricchire i dolci con orpelli di pasta frolla e giochi di colori, scelse di preparare per le feste natalizie anche “ u cucciddatu”, di cui vi presento la ricetta.


“U cucciddatu” ( buccellato)

Ingredienti della Pasta frolla: 300g. di Farina, 125 g.di burro, 50 g. di zucchero, 1 cucchiaio di marsala, 5g di ammoniaca, latte qb.

Preparazione: Impastare, in una terrina, la farina, lo zucchero, il burro, l’ammoniaca e un cucchiaio di marsala e impastare, aggiungendo del latte al bisogno. Quindi formare una palla, avvolgerla in una pellicola da cucina e riporla in frigo, almeno per 30 minuti.

Ingredienti del Ripieno: 300 g. di fichi secchi (  quelli di Cosenza sono il massimo non hanno semi, comunque scelta solo italiana), 30 g. di pinoli e 50 g. di mandorle, 50 g di noci, 50 g di nocciole tostate e tritate grossolanamente, 30 g. di uva sultanina, due cucchiai di miele d’arancio.

Preparazione
Mettete i fichi in ammollo, in acqua tiepida,  per qualche ora, quindi tagliateli a pezzetti e versateli  in una pentola  con le mandorle, noci e, nocciole tostati e tritati grossolanamente, i pinoli e  due cucchiai di miele d’arancio e fate cuocere per circa dieci minuti. Quando il composto sarà pronto, spegnete il gas, aggiungete la scorza d’arancia grattugiata, mescolate e fate riposare per qualche ora ( mia madre preparava il ripieno la sera prima e lo faceva amalgamare sul balcone al freddo, “o sirenu”, come dice lei, fino al mattino perché, sosteneva, i gusti si sarebbero amalgamati in modo naturale e naturalmente anch’io faccio lo stesso).

Preparazione finale
Su un piano infarinato, stendete una sfoglia rettangolare di circa 1 cm, con il mattarello e ponetevi sopra il composto, distribuendolo in orizzontale quindi arrotolatevi la pasta intorno, tagliando l’eccesso, unendo saldamente le estremità, per dare la classica forma a ciambella. Con un coltellino ben affilato, intagliate la superficie della pasta ancora cruda in modo da fare vedere il ripieno e aggiungete il decoro, a vostro piacere. Cuocete in forno, preriscaldato a 180 ° per circa 30 m., quindi tirate fuori il dolce, spennellate con un po’ di miele caldo, per rendere il buccellato lucido e trattenere la frutta candita che arricchirà la superficie, insieme ad altre decorazoni.

Qualche notizia sull’etimologia e l’origine
Il buccellato ha un sicuro antenato nel panificatus dei romani. La forma risale infatti al pane romano, dal termine latino tardo medievale “ buccellatum” ovvero il pane da sbocconcellare cioè da trasformare in bocconi. La “buccella” era il pane a ciambella che gli imperatori  romani spartivano alla popolazione, durante le feste o gli incontri tra gladiatori e l’addetto alla distribuzione si chiamava, appunto, buccellarium, da qui la storpiatura.
Si pensa, invece, che il ripieno di frutta secca si debba ad una vivace comunità di Lucchesi che vivevano in un quartiere della Loggia di Palermo, dove cominciarono a diffondere il buccellatum ripieno di frutta. La dominazione araba, nel frattempo, aveva introdotto cedri, zucche, mandorle e fichi secchi e così il ripieno man mano si era

lunedì 5 settembre 2016

Il Natale palermitano e il vecchio Marx



Era il primo Natale, nel paesino che ci ospitava, ed ero euforica, curiosa e nello stesso tempo malinconica: Finalmente avremmo festeggiato con i parenti, che avevamo appena conosciuto, avrei potuto vivere una bella serata con il vecchio Marx e mi sarei arricchita di nuove tradizioni, gustando piatti locali, ma sapevo che avrei sentito la mancanza di nonno Nino e del quartiere dove avevo vissuto sette anni, il piccolo mondo, il paesino in miniatura, come definivo quel gruppo di case dove il Natale era anticipato dal fermento collettivo: Le famiglie, il piccolo forno e i lavoratori di marmo, il piacevole miscuglio di voci di donne indaffarate a preparare le loro specialità, piatti tipici come crespelle e dolci ripieni, il viavai e le risate e i giochi di noi bambini. Era uno spettacolo a cielo aperto, perché tutto avveniva nella strada, il salotto di casa, punto d’incontro della piccola comunità dove, nei giorni che precedevano il Natale, si assisteva all’andiriviene di donne, di teglie da infornare e alla preparazione dei cibi genuini e gustosi, ai tanti dolci, i cui ingredienti li regalava la natura: Fichi, mandorle, nocciole, pistacchi, arance, miele  con i quali si preparavano le famose  “paste della luna”, per la loro forma a mezzaluna, accompagnate da vermuth o marsala e i “bocconcini di arancia mandorlata,” ricetta di famiglia. E il Natale, nella nuova casa , finalmente, arrivò, riunendo tutta la nuova famiglia con figli e nipoti, facendomi provare emozioni nuove, diverse, soprattutto più intime: A scuola, la maestra ci aveva preparato alla ricorrenza, addobbando l’aula, preparando poesie e canti di Natale e facendoci scrivere pensieri sulla festività, il paese mostrava i segni attraverso gli addobbi nelle strade, le vetrine delle pasticcerie che erano ricche di leccornie e le "putie" ( i negozietti di frutta e verdura) che presentavano i cesti di  frutta fresca, mescolata ai dolci di martorana e noi che abitavamo fuori dal paese, in uno spazio aperto, le uniche presenze erano i lavoratori del mercato generale, al mattino, e quelli della lavorazione della pietra, vivevamo la festività nella nostra casa, preparando il presepe e addobbando l’albero di Natale con i mandarini e i biscotti, a forma di stelline e di animali, che avevamo preparato il giorno prima con la mamma. E poiché ogni festa si celebrava a tavola, mia madre, seguendo le tradizioni di famiglia, da giorni si occupava della preparazione degli antipasti, dei primi tipici del suo paese come le scacciate, i cardi a “pastetta” e dei dolci e le specialità locali che, gentilmente, le aveva insegnato la vicina, preoccupata, però, per il giudizio del vecchio Marx, ospite d’onore della festività natalizia,  mentre mio padre era impegnato all'acquisto del pesce fresco, che avrebbe arricchito la tavola della vigilia, insieme all'uovo e al cuore di tonno, fatti arrivati da Favignana, e della ricerca di primizie, al mercato locale.
E a casa era tutto un fermento, soprattutto per noi figli che per la prima volta, festeggiavamo la vigilia con il mio papà, con il vecchio Marx, la nonna era mancata molti mesi prima, e anche con gli zii e i cugini palermitani, che sarebbero arrivati dopo cena. Non scorderò mai quella serata: Il patriarca, seduto a capo tavola, riprendendo il ruolo di pater familias, mio padre alla sua sinistra, felice di aver ritrovato finalmente la sua famiglia “tutta”, mia madre alla destra e noi ragazzi a far da corona all'ospite d’onore. La cena, con i suoi sapori antichi e marinari, era il regalo che mio padre aveva voluto fare al nonno che ritrovava la tradizione della sua isola, lasciata per forza maggiore  e dove per anni non era potuto tornare ( aveva rifiutato la tessera del fascio); Era una cena, ricca anche di pietanze della cucina catanese e palermitana, molto graditi dall'ospite che, per la prima volta, si era lasciato andare ad apprezzamenti sinceri per la padrona di casa, notando la cura con cui era stata apparecchiata la tavola, apprezzando “la squisitezza” e “la prelibatezza dei cibi”, e soprattutto la scelta dei piatti. La cena, ricca di ogni ben di Dio, si era conclusa con i dolci che, nella nostra famiglia , hanno sempre avuto uno spazio da protagonisti, mia madre era maestra nella preparazione dei bocconcini di arancia mandorlata dei quali il vecchio Marx fece il bis parecchie volte, accompagnati dal bicchierino di marsala.

Quando finalmente sono arrivati gli zii e i cugini la festa era al culmine: Le risate accompagnavano le chiacchiere e le battute, gli zii gustavano i dolcetti della tradizione catanese e le crespelle all’acciuga e alla ricotta, accompagnandoli con i vini o liquore e poi finalmente tutti a giocare a carte, con i litigi furiosi di noi ragazzi, se perdevamo. “A tummuliata” ( la tombola) era un gioco tradizionale, non si trattava della versione moderna, munita di cartellette, bensì di quelle con le carte siciliane e mentre seguivamo l’uscita dei numeri, mangiavamo la frutta secca, lo “scaccio”, così si dice a Palermo, come noci, mandorle e nocciole, aspettando la mezzanotte per andare in chiesa e assistere alla funzione religiosa. La festa continuò il giorno di Natale: Il nonno, ancora con noi, e noi tutti attorno alla tavola  per celebrare la festività con gli anelletti al forno, che è il piatto tipico della festa, seguito dal brociolone di carne di vitello con contorno di patate e verdure e tante insalata tra le quali l’insalata di arance e aringa che piaceva molto a mia madre e che, regolarmente, tentava di farla “digerire” anche ai noi ragazzi. Il pranzo si concluse ancora con i dolci, le cassatelle, i cannoli, a cubaita e i buccellati, il dolce per antonomasia del Natale e dei palermitani e la frutta, soprattutto” Fichidindia e nespuli d’invernu”. Come tradizione voleva, nel pomeriggio, mia madre ci accompagnò a Palermo, a visitare i presepi della chiesa dei “Tre re”, della basilica di S. Francesco d?Assisi, della chiesa della Confraternita della Madonna della Mercede e in particolare il presepe di pane, preparato dalla confraternita dei fornai, straordinario.  E la festa continuò ancora il giorno di santo Stefano, ancora con i parenti, il pranzo, la cena e chiudendo la serata ancora giocando a carte e divertendoci. Sono stati giorni intensi, emozionanti, anche se stancanti, perché non ero abituata a rimanere sveglia fino a notte alta, ma a quel primo Natale palermitano, ne seguiranno tanti altri meravigliosi, purtroppo pochi, otto anni dopo muore il vecchio Marx, all’età di novantasei anni, e  qualche anno dopo mio padre, giovanissimo, a soli quarantanove anni. La vita l’ho vissuta nel suo ricordo e nella scia dei valori che mi aveva inculcato e che mi hanno aiutato a costruire il mio presente, conservando quel mondo di semplicità e il gusto per la vita,di cui mio padre era stato esempio.
Il dolce di Natale palermitano è il “buccellato”, dolce tipico della festività di questa bella terra e di cui vi presenterò le origini e le caratteristiche separatamente; vi proporrò, quindi, un dessert natalizio, semplice, genuino e profumato che mia madre preparava spesso e, per noi ragazzi, in versione golosa, un dessert che sa di tradizione e di legame con le terre di Sicilia.

“Arance al rum” con scaglie di cioccolato fondente

Ingredienti: 400 g. di arance ( vi consiglio i tarocchi siciliani, dolci, succosi e rossi come la terra di Sicilia) pelate a vivo e tagliate a fette, 30 g. di uvetta ammorbidita nel rum per 15 minuti, per disidratarla e insaporirla, 4 pizzichi di cannella.

Presentazione finale del piatto di “Arance al rum”
Disponete su un piatto da portata le fette di arance, già tagliate a fette, spolveratele con la cannella; aggiungete l’uva passa, intrisa di rum, completando con una cascata di scaglie di cioccolato fondente. E’ un dessert semplice ma ottimo, da servire freddo. In famiglia, la ricetta dell’arancia all’uvetta al rum”, era preparata anche con una colata di salsina di cioccolato fondente di cui vi presento la ricetta:

Ingredienti della salsina di cioccolato fondente
: 250 g. di latte fresco intero, 80 g. di zucchero semolato, 35 g. di cacao amaro in polvere, 75 g. di cioccolato fondente al 70 %, 1 cucchiaio, raso, di maizena.


Preparazione
Portare ad ebollizione, in una pentola, tutti gli ingredienti, tranne il cioccolato e la meizena; non appena, il composto avrà raggiunto l’ebollizione, unire la meizena, sciolta in un cucchiaio di acqua fredda, cuocere per 1 minuto, mescolando, aggiungendo il cioccolato fondente e fare sciogliere, quindi allontanare la salsa dal fuoco e farla raffreddare. E’ ottimo per decorare gelati e semifreddi e si conserva in frigo anche 15gg.