venerdì 16 dicembre 2016

A nuvena di Natale e ciaramiddari


E scendevano dalla montagna, i "ciaramiddari", ricordando che il Natale stava arrivando, suonando le struggenti e caratteristiche note, per annunciare la nascita di Gesù Bambino.
La piccola via si metteva in festa: La facciata delle case si ornava di” frasche" d’arance, di immagini dei Santi e noi ragazzi ci affollavano dietro "i ciarameddari", che andavano a suonare davanti alle cappellette con la luminaria, accanto agli usci.
Era una festa di affettuosa aggregazione, di attesa per un evento in cui si riponeva la speranza di abbondanza e prosperità e per questo alla novena si portava in offerta, il meglio che si poteva trovare, in quella stagione.
Tutto cominciava dopo la festa di Santa Barbara, che terminava l’11 dicembre; a casa era tutto un fermento, per la composizione del presepe e  “a cunsata da nuvena”, la cui preparazione era compito del nonno che aveva, già, portato dalla campagna l'occorrente, per preparare la struttura e anche gli agrumi, per abbellirla.
Dopo aver preparato il telaio di canne, piegate ad arco, rivestito da un telo bianco e coperto al’esterno da foglie di alloro e, nella parte anteriore, da rami di biancospino e asparago selvatico, il nonno mi disse: “Adesso puoi collaborare, porgimi le arance, i limoni e i mandarini che disporrò, a coppie, sui rami di biancospino, tanti quanti sono i giorni in cui si celebra “a nuvena” mentre all’interno, sotto un cielo stellato, appendiamo, i biscotti, la mostarda, le caramelle, i fichi d'india, mele cotogne, nespole d’inverno e melagrani, tutti prodotti che la nonna, io lo sapevo perché l’avevo seguita in quello strano posto che mi incuriosiva sempre,  aveva preparato sul tavolo”.
Che bello, era proprio bello! E lo fu ancora di più quando, su una base di vischio il mio nonnino collocò la Madonna col Bambino, invitandomi ad inginocchiarmi e, dopo aver fatto il segno della croce, a ripetere la preghiera, mentre, per tutta la casa, si spandeva, dal braciere,  “a conca”, l’odore della buccia di arance e mandarini, che bruciavano nella carbonella.
E quando arriveranno i ciaramiddari, chiesi? Tra qualche giorno, rispose il nonno, arrivano da Maletto, con il loro abbigliamento montanaro, scendendo a dorso di muli, per animare le celebrazioni religiose.
E cosi era stato! Davanti all’altarino, dove si ripetevano gli antichi canti, c’eravamo tutti, i nonni, i familiari, i vicini, grandi e piccoli, tutti in piedi attorno al presepe e “u ciaramiddaro” di fronte; dopo che la nonna ebbe acceso le nove candeline, numero dei giorni della novena, ascoltammo, in religioso silenzio, le invocazioni e i canti di Natale e, alla fine, intonammo “Tu scendi dalle stelle”. Tutto durava, al massimo, cinque minuti e via al presepe successivo, erano tre le famiglie, e noi bambini facevano corona, ressa al nostro suonatore che riceveva, ogni volta, il solito bicchiere di vino, tanto che, dopo i primi giorni, il forte odore di ovile si mescolava ad un vago sentore alcolico;  il 24 dicembre era l’ ultimo giorno di musica e preghiere “pu ciaramiddaru” che, finalmente, poteva tornare a casa, dopo essere stato pagato.
E noi bambini che tutte le sere vivevamo una grande festa, aspettavamo, anche, con grande impazienza, il giorno della “scunsata da nuvena”, per poter gustare finalmente, i dolcetti e la frutta che erano stati appesi per abbellirla; ma tutto era nelle mani del nonno che nel disfare “a nuvena”, cioè eseguire il rito propiziatorio, che riteneva una cosa molto importante, non voleva intrusi, purtroppo, considerando il risultato vitale, per la famiglia perché le spine del biancospino, che erano state a contatto con il sacro, dovevano essere bruciate e se il fumo fosse andato verso destra, il responso sarebbe stato positivo, promettendo che l’annata del raccolto sarebbe stata ricca e copiosa, se a sinistra, sarebbe stata disastrosa e io sapevo che solo se il risultato fosse stato il primo, avrei potuto trascorrere una bella serata con il mio nonnino e pregavo che tutto andasse bene. Per fortuna quasi sempre il responso era positivo e quando questo non avveniva, io gli stavo vicino e lo consolavo.
Quanta emozione! Ancora oggi, i lontani ricordi d’infanzia mi riportano alla memoria riti, volti e affettività, ormai lontani, ma che rimangono sempre il mio scrigno di emozioni.
 





martedì 6 dicembre 2016

La Pasqua della mia infanzia: U ciciliu, la gioia dei bambini


Chiamatelo cuddura ccù l’ovu.  campanaru o cannatuni, pupu ccù l’ovu, cannileri, panareddu, palummedda o ciciliu, ma è sempre lo stesso dolce pasquale siciliano, amato dai bambini.

 Nel palermitano, la Pasqua era tutta un’altra cosa: Era finita la piccola comunità, dissipata negli appartamenti condominiali sparsi nella città, ormai era una festa cittadina.
 E io ritornavo, col pensiero, al mio paesino, al mondo semplice, alla festosa partecipazione delle famiglie, ai riti ma soprattutto al dolce che rappresentava la gioia della pasqua.
 La nonna me lo ripeteva spesso: “Il ciciliu rappresenta il tipico dono che ci si scambia, nel periodo pasquale, molto economico ma nutriente, di sapore genuino e di particolare profumo ma è anche molto colorato, grazie all’uso dei “cimini”, le codette. La preparazione, di questo dolce pasquale, si tramanda da generazioni in generazioni e costituisce un vero e proprio rito della comunità; tra il giovedì e il venerdì santo, ci si ritrova, nella cucina e tutti attorno al grande tavolo con le donne di casa e le vicine, con compiti diversi: La persona più esperta,  di regola la persona più anziana e con più esperienza, si occupa delle figure più elaborate, aiutata dalle altre donne, alcune preparando gli arredi del ciciliu e altre come spicciola manovalanza, si limitano a spennellare la pasta con l’uovo battuto”.
Ricordo bene! Era arrivato il giovedì santo, la nonna, che sapeva che avrei fatto di tutto per esserci, mi spiegò che dovevo stare lontana dalla cucina fino a quando non sarei stata chiamata: Ma perché nonna, io non disturbo, non impiccio? Lo so che vuoi aiutarmi, ma dopo che abbiamo infornato il pane, rispose: Nella “maidda” c'è la pasta lievita,  “no furnu” stanno bruciando i zucchiceddi, legna grossa, per poi infornare il pane per la settimana, quindi è meglio che tu aspetti fuori. Quando avremo riposto il pane e coperto la tavola con una tovaglia, dove lavorare la pasta per i dolci pasquali,  tu siederai accanto a me e mi aiuterai ad abbellire la pasta del ciciliu, per renderla regale, mentre la zia Nunzia comincia ad infornare.
E così era stato: Seduta vicino alla nonna, osservavo con curiosità la maestria nell'uso delle mani, la rapidità dei movimenti per creare frutta, fiori e ornamenti vari; e  il mio compito era mettere i piccioli alle mele e alle pere, modellate dalla mia mamma, legnetti ricavati dai rametti di ulivo, con l'occhiello delle chiavi fare la bordura e poi, con il ditale, fare i cerchietti sulla pasta biscottata, artisticamente intrecciata in varie forme, conigli, cesti, corone, con incastonate uno o più uova, secondo la destinazione e dove le donne poi avrebbero collocato i fiorellini, le colombine, i tralci, roselline  e piccole calle. E anche gli strumenti usati, erano i più svariati, oggetti familiari, vissuti nella vita di tutti i giorni: Ditali,  per decorazioni a puntini, coltellini, calchi di latta o di zinco o di rame o formelle di gesso e il rocchetto del filo per cucire, gli stampini in legno, tappi, l’estremità di una chiave, usata come punzone, e per ritagliare la sfoglia di pasta si usava lo “sperone”, un oggetto in metallo (di regola di rame). 
Ero affascinata, in particolare, dagli orpelli e i ricami barocchi, e dagli ornamenti con i quali la nonna arricchiva, con un lavoro laborioso, i dolci, facendoli diventare, opere d’arte; e grande fu la mia sorpresa quando, sfornati i cicilii, mi disse: “Scegli quello che ti piace di più, è il mio regalo di Pasqua”. Ero davanti a pecorelle, conigli, cestini, corone, con un uovo sodo incastonato ma anche campane, pupe, galletti e ciambelle con due o più uova: Ero indecisa, cosa scegliere, mi anticipò la mamma che mi invitò a prendere la colomba, spiegandomi che oltre ad simbolo della pace, rappresentava la festa, e, poi, ha due uova incastonate, concluse. Si, era quello giusto, l’avrei mangiato con  nonno Nino, pensai e di corsa e felice, salii al piano di sopra dove il mio nonnino, come faceva sempre, mi aspettava per cenare. Che serata e che bambina fortunata!















mercoledì 16 novembre 2016

E..vivemmo la Pasqua palermitana

                           
E mia madre disse: Sono feste di città!
Era la prima Pasqua, nel palermitano e, curiosi di conoscere come si vivesse la festa, ci siamo rivolti ai parenti; sollecito fu lo zio Guido che, con poche parole, ci spiegò le fasi della Pasqua palermitana,  la visita dei sepolcri, il giovedì santo, la via Crucis del venerdì e finalmente  il giorno di Pasqua con il rituale della santa messa, del ramo d'ulivo e la palma benedetti e infine l’acquisto in dolceria, come i siciliani chiamano le pasticcerie, degli agnelli pasquali, fatti di pasta reale e “i pupi cu l’ovu " che avrebbero accompagnato il pranzo, naturalmente, con i parenti e relativo scambio dei regali, per i bambini. Ed io chiesi: Quando prepareremo i dolci della festa? Te l’ho già spiegato, dice zio Guido, li compreremo in pasticceria, solo le “massaie” preparano i dolci in casa, mentre le zie prepareranno il pranzo pasquale con manicaretti, particolarmente succulenti.
“Ma zio, risposi, é tradizione che prima della festa ci si riunisca in famiglia, per la preparazione dei"cicilii" o "i pupi ccu l’ova", come li chiamate voi, e mentre zie e parenti si dedicano ad arricchire il dolce, noi bambini ci divertiamo a decorarli. Il silenzio dello zio mi rattristò a tal punto da farmi correre da mia madre che, cogliendo il mio stato d’animo, mi rassicurò promettendomi che il giorno dopo, giovedì santo, come era sempre stata nostra tradizione, ci saremmo ritrovati, in cucina, per la preparazione dei dolci di Pasqua. Ma io volevo capire: Mammina, perché la tradizione, dai parenti palermitani, è vissuta, senza particolare complicità? La risposta fu concisa e precisa: Sono feste di città e, senza darmi il tempo di chiedere altro, aggiunse, tra qualche anno, capirai.
Quanto mi mancava Paternò, la mia piccola strada, un paesino in miniatura, il via vai dei vicini di casa, le grida di gioia dei tanti bambini e gli odori di forno: Era una festa di popolo e di emozioni, tutto seguiva un copione millenario, in uno scenario naturale.
I rituali si aprivano la domenica delle palme, che rappresentava il momento gioioso della festività, rappresentato da grandi pale di palme e ramoscelli d’ulivo momento in cui in gruppo, la mia famiglia e i vicini di casa, si andava in chiesa, dopo aver comprato, da artigiani abilissimi, i simboli religiosi che, dopo la benedizione, venivano posti dinanzi all’immagine della Madonna, il nonno invece li portava in campagna, a tutela, per le loro virtù miracolose, diceva lui, della sua proprietà, della casetta rurale e contro i temporali.
Al clima festoso delle Palme, subentrava il massimo raccoglimento della Settimana Santa, in cui si rinnovavano riti antichi e solenni che si aprivano con il giovedì Santo e la visita dei sepolcri, ma quella particolarmente commovente e partecipativa era la processione storica dell’Addolorata del venerdì, la via crucis, che noi, piccola comunità, seguivamo insieme a tutto il paese. Dalla collina, la Madonna e il figlio morto scendevano a valle per dare vita alla processione più straordinaria e suggestiva dell’anno: Il corteo si snodava, silenzioso e mesto, per le vie del paese e, anche se era quasi primavera, sembrava che anche il cielo esprimesse l’angoscia dell’evento.
E’ ancora la Collina storica era il luogo che accoglieva, con trionfo, il Cristo risorto, con la bandiera bianca, e, da lì, la processione scendeva verso il fondo valle, accompagnato dai tanti fedeli e da noi bambini felici, con il vestitino nuovo e le bimbe anche con il fiocchetto tra i capelli.
E a mezzogiorno, sciolte le campane, si festeggiava la Pasqua, la festa del perdono per eccellenza, “la festa de li festi” che rappresentava, per la gente, l’occasione per riappacificarsi con chi si aveva avuto qualche screzio: In qualsiasi luogo si fosse, si baciava per terra, e lo facevano tutti, e si baciavano conoscenti e amici, scambiandosi gli auguri e noi bambini tornavamo a casa con i regalini, ricevuti dai parenti e amici, il sacchetto di “cosaduci” e “u ciciliu”, il dolce fatto di pasta di pane lievitata e decorato da uova sode e glassa di zucchero che si tramanda di generazione in generazioni e grazie ai suoi sapori e odori che emana, permette di conoscere le antiche tradizioni siciliane.
E proprio“i  nostri cicilii” regalammo agli zii e ai cuginetti di cui eravamo ospiti, il giorno di Pasqua; quanta gioia e curiosità negli occhi di Nando e Salvatore, che continuavano ad osservare i coniglietti decorati a mano che portavano, sulle orecchie, il nome di ognuno di loro: Era un dolce speciale, preparato secondo la tradizione paternese con pasta artisticamente intrecciata, incastonata di uova sode e arricchite da palline colorate, con cui io stessa, avevo arricchito gli animaletti.
Così era vissuta ed è ancora oggi si vive la Pasqua, nella mia famiglia: I nipoti fanno le richieste e la sottoscritta, la settimana che precede la grande festa, prepara "i cilicii" personalizzati, e le emozioni affiorano prorompenti, risvegliati anche dagli odori che si diffondono in tutta la casa, ed è facile ritrovarsi nella grande cucina,  quella dei nonni, dove tutto  aveva sapore di genuinità e fratellanza..













giovedì 27 ottobre 2016

Il giorno dei morti? In Sicilia era una festa!


Ma io ricordo, bene, come la vivevo, prima a Paternò e poi nel Palermitano, la vigilia della festa dei morti, cu “U scantu e a curiusità”! ( con lo spavento e la curiosità).
E l’ambivalenza dei siciliani con il mondo dei morti! Da un lato le anime dei trapassati vengono scacciate attraverso riti e preghiere, dall’altro invece proprio le anime dei defunti vengono invocate, per chiedere protezione e aiuto; ed era ciò che capitava a me perché ero contenta di ricevere i regali,  con l’emozione di chi sperava di trovare ciò che aveva scritto nella sua letterina, ma anche spaventata se, svegliandomi di notte, mi fossi trovato accanto al letto, la nonna o altri parenti defunti.. E queste paure aumentavano quando, per farmi andare a letto, la mamma e gli zii, mi raccontavano sui defunti che si svegliavano, si rifornivano di dolci, giocattoli, regali, sottratti ai negozianti per portarli in regalo ai piccoli della famiglia, ma solo, se lo avessero meritato”, aggiungendo che i morti capivano se un bambino dormiva veramente o faceva finta, “ T’arattunu i peri e si si svigghiu ti mettunu a cira ‘nta l’occhi” ( ti grattano i piedi e, sei sveglia, ti mettono la cera negli occhi), ripetevano e  la mia reazione era sempre la stessa, nascondere la grattugia e sperare.
E quanto era bello il mattino dopo! Dopo essermi svegliata, con il cuore che mi batteva forte, forte, mi alzavo alla ricerca frenetica dei regali, nascosti negli angoli più impensati della casa, dopo aver recitato la supplica: “Armi santi, armi santi/ iu sugnu unu e vuatri / siti tanti:/ Mentri sugnu ntra stu munnu di guai/ così di morti mettiti minni assai”. E poi trovavo”u canistru”, il cesto colmo di frutta fresca, l’ossa ri morti (*) e “a pupa di zucchero”, dolce antropomorfa di chiara origine romana, e qualche volta le scarpe nuove che, oltre ad essere utili, erano anche un augurio per il nuovo anno. E, finalmente, noi bambini ci ritrovavamo per strada con i nostri giochi e dolcetti e, cantando la canzoncina della ricorrenza, entravamo nelle case dei vicini che ci regalavano il dolcetto, l’ossa di morto e altri piccoli regalini. Quanto ci divertivamo!

Ecco la tiritera:

Talè chi mi misiru i morti,       (Guarda cosa mi hanno portato i morti)
‘u pupu cu l’anchi torti,           (statuetta composta di un impasto di zucchero, con le gambe storte)
‘a atta ch’abballava,                 (la gatta che ballava)
‘u surci chi sunava.                  (il topo che suonava)
Passa la zita cu ‘a vesta di sita, ( passa la fidanzata con la veste di seta)
Passa ‘u Baruni  cu i cavusi a pinnuluni ( passa il barone con i pantaloni a penzoloni)
  
E’ evidente che vivevamo la ricorrenza dei morti con gioia e serenità, come la vivevano gli adulti, felici che i nostri defunti tornavano a trovarci e sarebbero tornati l’anno dopo. E si faceva gran festa: Le scuole erano chiuse per due giorni, si trovavano bancarelle ovunque, stracolme di giocattoli e grandi luminarie.
E in Sicilia non c’è festa che non venga contrassegnata da un cibo dedicato alla ricorrenza! La colazione del giorno dei morti é “la muffoletta”, (pagnotta morbida più grande di quella utilizzata per il pane e panelle) calda, condita con olio di oliva, acciughe e caciocavallo a scaglie; ed era anche la colazione del nonno che, poi, accompagnava noi tutti al cimitero, per salutare i nostri morti. Si saliva nella collina storica, dove il panorama la faceva da padrona e si lasciava un fiore sulle tombe dei parenti, dopo avere recitato una preghiera e, a pranzo, mia madre preparava pietanze che la nonna defunta gustava con piacere e mentre si mangiava si pronunciava la frase di rito:”Saziate l’armuzza santa di me matri o di me nanna o di me mogghieri, a seconda del rapporto di parentela.
Oggi è solo un dolce ricordo! Con Halloween, la festa, per i bimbi siciliani, è un fatto puramente commerciale, fatto di moda e spavento, e, purtroppo, tutta un'altra cosa!.


(*) Ossa dei morti:Macabri dolcetti a forma di tibia o femore o falange di pasta bianca che si sfarina sotto i denti, proprio come ossa vere su uno strato di pasta marrone dura, difficile da addentare, che rappresentava la bara.

giovedì 20 ottobre 2016

Parlando di parmigiana, quella rivisitata da mia madre

Come tutte le ricette tipiche della mia terra, anche per la "parmigiana di melanzane" è importante conoscere la città o la provincia o la famiglia, ogni buona nonna ha tramandato la ricetta alla propria figliola, dove viene preparata.
Chi mette il parmigiano, chi la mozzarella, chi la provola, chi il prosciutto e le uova sode, chi infarina le melanzane e chi no, chi addirittura le impana in uovo e pangrattato, chi li griglia e infine chi li fa in bianco senza sugo, ma solo con una sorta di pastella di uovo e di latte.
La parmigiana fa parte della categoria dei secondi piatti e, perché no, anche dei piatti unici, ma è anche servita come antipasto, fredda e tagliata a tocchetti;  la pietanza é “piuttosto corposa e anche se è un piatto tipicamente estivo non é adatta al caldo, però non manca nelle tavole dei siciliani e, soprattutto, nelle località balneare.

Nelle ricette antiche siciliane, non era previsto l’uso del parmigiano ma formaggi locali dal sapore più intenso come il pecorino pepato siciliano, che era la ricetta che  apprezzava il nonno: “Lo ricordo il mio compagno di giochi, io lo aiutavo, alle prese con la parmigiana contadina, come la preparava la “sua” mamma, fin dall’ inizio del secolo scorso, con il cacio, il pepato o il primo sale. Ma quella della nostra famiglia, rivisitata da mia madre nei suoi ingredienti e, resa più leggera perché no fa ingrassare, é composta di pochi elementi di qualità, tanta pazienza e gioiosità, quella la mettevo io, naturalmente, ed é sempre stata la nostra parmigiana che vi presenterò e che sono sicura piacerà anche a voi.

Parmigiana

Ingredienti
1 melanzana ( preferibile la violetta lunga palermitana): tagliare a fette in lunghezza, cospargere di sale, farli spurgare per circa quindici minuti, quindi sciacquarli e farli scolare; friggere in padella con olio d’oliva e asciugarle su carta assorbente.
 ½ l di salsa: In una pentola, fate dorare lo spicchio d’aglio con un filo di olio e aggiungete la salsa, salate  e fate cuocere, quindi aggiungete qualche foglia di basilico e, se necessario, aggiustate l’acidità, con un cucchiaino di zucchero.
1 spicchio d’aglio, 1 mozzarella tagliata a fettine, parmigiano grattugiato, basilico, olio extravergine, sale e zucchero (se occorre, per aggiustare l’acidità della salsa).

Preparazione
Disponete, in una teglia da forno, un primo strato di melanzane, cospargetevi la salsa, aggiungete qualche foglia di basilico, disponete le fettine di mozzarella e completate con una generosa spolverata di parmigiano grattugiato e continuate a formare gli strati, chiudendo con delle fette di pomodori, spolverati di parmigiano.
Mettere in forno a 180° per 20 minuti e  buon appetito!


Qualche notizia
Napoli e Palermo si contendono l’esclusività della ricetta; non c’è, comunque, da meravigliarsi visto che il regno di Sicilia prima e quello delle due Sicilie dopo comprendeva tutta l’Italia meridionale.
La prima testimonianza storica sulla parmigiana è contenuta nel “Cuoco galante”( 1733) di Vincenzo Corrado, cuoco pugliese, al servizio delle più importanti famiglie aristocratiche della Napoli del ‘700.
Ippolito Cavalcanti,duca di Bonvicino descrive, nel 1839, una ricetta simile nella sua “Cucina casarinola co lo lengua napoletana (Cucina teorico pratica), così scrive: ”E farai friggere le melanzane e le diporrai in una teglia a strati con il formaggio, basilico, brodo di stufato o con salsa di pomodoro e coperte le farai stufare”.
L’utilizzo del parmigiano arrivò in una fase successiva come alternativa al pecorino e i napoletani ci aggiunsero anche la mozzarella.
E l’origine del nome?
Alcuni pensano che il nome derivi dal termine dialettale “parmigiana” che sta ad indicare l’anta a listelle delle persiane di legno che ricorda la forma in cui le melanzane si tagliano e in cui si dispongono nella teglia.





mercoledì 5 ottobre 2016

A putia r'o vinu e "Upurpu 'mbriacu"



Mio padre, quando preparava “U purpu ‘mbriacu” raccontava sempre la stessa storia: La vecchia putia r’o vinu,( le osterie che vendono vino) frequentata da uomini del paese che, prima di rientrare a casa, per la cena, si fermavano a giocare a carte e lui, piccolo ma molto curioso, quando riusciva ad uscire di casa, si fermava sulla soglia dell’osteria per sbirciare: Vedeva, nel locale semi buio, gli uomini, chiacchierare e  mangiare  pezzetti di formaggio, uova sode e qualche volta, il polpo ubriaco che l’oste poneva al centro del tavolo, accompagnato dal vino. Ci raccontava che, nell'ingenuità di bambino, pensava e sperava che il polipo potesse riprendere vita e, anche se barcollando per i fumi dell’alcool, uscire dal piatto, sgattaiolamdo via". E anch'io, tutte le volte che preparo questo piatto, immagino che il tenero piccolo polipo, come nei cartoni animati, si ricomponga e, quatto quatto, se la svigni.

 
“U purpu ‘mbriacu” (Il polpo ubriaco)
Può essere gustato come secondo piatto da consumarsi con fette di pane casereccio, leggermente tostato o anche freddo, come insalata, oppure per preparare delle ottime bruschette. Un’altra soluzione, interessante, è quella di condire, grazie al fondo di cottura estremamente saporito, un buon piatto di spaghetti, avendo l’accortezza di sminuzzare una parte del polpo, in pezzetti piccoli.

Ingredienti

1 kg. di polpo ( ricordare che se il polpo è fresco deve essere  battuto più volte in modo da rilassare le nervature presenti nei tentacoli; se è congelato invece può essere cucinato subito)
3 agli, ½ l di buon vino rosso, 3 foglie di alloro, 1 peperoncino rosso,piccante, 2 cucchiai da tavola di prezzemolo, 6 cucchiai di olio extravergine d’oliva.
Pulire il polpo sotto l’acqua corrente, privandolo delle viscere, del dente centrale, degli occhi, per quanto è possibile, della patina che ricopre il polipo, quindi tagliatelo in pezzi (Potete comprarlo già pulito).

Preparazione

In un tegame, versare l’olio, aggiungete gli spicchi d’aglio intero, unire le foglie di alloro, il peperoncino, tagliato a pezzettini, avendo l’accortezza di eliminare, in tutto o in parte, i semi qualora non si gradisca una pietanza troppo piccante. A questo punto, unire il polpo a pezzi e fare saltare qualche istante, quindi aggiungere il vino rosso e un po’ di prezzemolo tritato. Dopo aver portato ad ebollizione, abbassate la fiamma, coprire e cuocere per 40/50 minuti, in base alla durezza del polpo stesso. Se il sugo dovesse restringersi troppo, aggiungete qualche cucchiaio di acqua. Pochi istante prima di togliere dal fuoco il polpo ubriaco, aggiungete una generosa manciata di prezzemolo tritato e aggiustare di sale e lasciare intiepidire qualche mi

lunedì 3 ottobre 2016

Arancia:Come estrarre la polpa dal suo involucro



Tagliare le due calotte superiore e inferiore, pelare il frutto a vivo; al suo interno la polpa è avvolto ancora, ai lati, da una pellicina che dovrete liberare dalla stessa con il coltello, estraendo così gli spicchi uno dopo l'altro.