lunedì 11 luglio 2016

Il ruolo delle suore nello sviluppo dell'arte dolciaria siciliana



La chiesa, la spiritualità, le pietanze, i dolci intrisi di religiosità e anche i monasteri e le suore di clausura: Si, il ruolo svolto dai monasteri femminili, nello sviluppo dell’arte dolciaria siciliana, di quell’ambiente in cui nasce la maggior parte dei dolci, preparati in occasione di festività religiose come la Pasqua e la settimana Santa, la Commemorazione dei defunti, il Natale, San Giuseppe.
La preparazione dei dolci, per le festività, a casa dei nonni materni, era sempre accompagnata da racconti fantastici; era stata mia madre a parlarmi dei Monasteri di clausura di Paternò e di Catania dove erano state create “ lune”,”biancomangiare” e le  “minne” di Sant’Agata e di come, attraverso le donne del paese, chiamate dalle suore, per i lavori più pesanti, mentre loro erano impegnate in cucina a preparare quelle delizie. erano state divulgate in paese. E seguivo, affascinata, la preparazione e la cottura dei dolci che inondavano, con il loro profumo, la grande cucina: Ero sempre lì, aiutavo, porgendo gli ingredienti, e osservavo mia madre che, dopo aver preparato l'impasto, creava i dolcetti con le formine di latta o di legno e con le mani, agili ed esperte, li arricchiva con le decorazioni, particolarmente fantasiose (sono brava anch'io!). Spesso chiedevo alla nonna notizie su quelle suore che nessuno vedeva mai ma che, attraverso le pietanze e i dolcetti, mostravano la loro bravura e la raffinatezza nel gusto e lei, paziente, sedendosi accanto, mi raccontava: “Quasi tutti i monasteri, della nostra zona, hanno le loro specialità dolciarie, create con lo scopo di poter vivere rapporti con il mondo esterno come le suore del Monastero di clausura di San Benedetto che, durante la festa di Sant’Agata, santa patrona di Catania, escono sul sagrato all'alba, per non essere viste, e intonano un canto celestiale”.
Quando chiesi alla nonna perché fossero entrate in convento, per poi trasgredire alle regole della clausura, mi rispose che alla volontà dei loro genitori non potevano disobbedire, le giovani di famiglia nobile o agiata, disse, erano state educate per assumere, all'interno del monastero, posizioni importanti a cui erano state preparate da tempo.
Anche nel paesino dove ci eravamo trasferiti, abbiamo continuato a preparare, per le festività, i dolcetti della tradizione catanese, facendo nostri anche quelli della tradizione palermitana, anch'essa nata nei tanti monasteri, presenti sul territorio: Le monache, quasi sempre di clausura, preparavano pasticcini e dolcetti, inizialmente, solo per contraccambiare, in maniera elegante e significativa, i favori e i servizi ricevuti da Vescovi e Prelati, confessori personali, e medici e professionisti con i quali, malgrado la clausura, dovevano entrare in contatto e in seguito per sostenere le spese del convento. I dolci, con i propri simboli, costituivano i migliori regali che le suore potessero fare ai loro benefattori, grazie anche agli speciali ingredienti, presenti sull'isola: Mandorle, miele, ricotta, nocciole, pistacchi e anche lo zucchero di canna che sostituì presto il miele perché era più facile lavorarlo. Erano ricette antichissime, risalenti al periodo arabo e poi perfezionate nei monasteri che preparavano le loro specialità: Le lune erano produzione esclusiva del monastero della SS Immacolata di Paternò, I cannoli geminati, le teste di turco e le cascatelle e a Pasqua “i pupi cu l’ovu” del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto;
le suore benedettine preparavano dolcetti di pasta di mandorla; le suore del monastero di Santa Elisabetta, erano conosciute per la loro rosticceria e in particolare per “ravazzate con la ricotta”, nel Monastero Settangeli si preparavano i “Mustazzola” e “l’ossa di mortu”, tipici della ricorrenza dei morti e, nel Monastero della Pietà, si preparavano i pan di spagna e ancora.............
Pochi sono i monasteri siciliani che ancora oggi continuano questa straordinaria tradizione, quello di Santo Spirito a Agrigento, abitato dalle ultime suore di clausura, specializzati nella preparazione dei dolci di mandorla, quello di San Michele Arcangelo a Trapani e quello delle Benedettine del Monastero del S.S. Rosario a Palma di Montechiaro, dove si preparano biscotti ricci, bocconetti, pasta reale.
Quasi tutti i monasteri tramandarono le lor ricette di generazione in generazione, fino ad arrivare ai giorni nostri, attraverso persone che ne hanno fatto un mestiere, i pasticcieri.

Qualche curiosità sugli attrezzi della cucina del Monastero
Gli arnesi della cucina erano costituiti da pochi indispensabili attrezzi: per pestare le spezie,( la cannella era la più usata per aromatizzare i dolci), le nocciole, le mandorle o le noci, per preparare il torrone,, si usava un mortaio di rame o di pietra; per modellare la pasticceria si usavano calchi di latta o di zinco o di rame o formelle di gesso; per decorare si usavano gli stampini in legno ma spesso le suore usavano le mani, la fantasia e piccoli utensili: coltellini, ditale, per decorazioni a puntini, l’estremità di una chiave, usata come punzone . Per ritagliare la sfoglia di pasta si servivano dello “sperone” oggetto in metallo (di regola si usava il rame).  

giovedì 7 luglio 2016

La cuccìa, simbolo di religiosità

Erano passati pochi giorni dalla ricorrenza dell’Immacolata ed eravamo pronti a partecipare a un’altra festa religiosa e soprattutto culinaria, così la definì mia sorella, la festa di Santa Lucia.
Decisa a saperne di più sul rapporto tra la festività e il cibo, Agnese chiese altre notizie alla nonna della sua amica Amalia, quasi novantenne, che, meravigliata e nello stesso tempo compiaciuta, invitandola a sedersi, le raccontò la storia di Santa Lucia: Con un miracolo, dice, libera la Sicilia dalla carestia, facendo arrivare un bastimento di grano a Siracusa, sua città natale e i siciliani, che per diversi mesi hanno sofferto la fame, non aspettano di macinare il grano ma lo cucinano così com'è, aggiungendo solo un filo d’olio, per sfamarsi subito, dando vita al piatto della “cuccìa”(1) che da quel momento in poi è associata alla festa della santa, come penitenza e devozione di quegli eventi.
Con il passare del tempo, continuò la nonnina, quello che doveva essere una penitenza, digiunando, diviene il giorno in cui si mangia di più, trasformando il 13 dicembre in un’occasione, per tanti golosi palermitani, che non mangiando né pane né pasta, si rimpizzano con pietanze gustose e sempre più elaborate: Ceci lessati e conditi con il vino cotto, le panelle fritte e anche dolci, farcite con crema di ricotta o di uovo all'inglese, legumi e verdure a cui si aggiunse il riso, altro cereale a forma di chicco, che, consumato prima soltanto bollito, venne sempre più elaborato fino ad arrivare all'arancina, ripiena di carne tritata al ragù. La stessa trasformazione l'ha avuta la cuccìa, sospirò con nostalgia la nonnina, il grano bollito con olio diventò un dolce squisito con l’aggiunta di crema di ricotta, zucchero, cioccolato fondente, zuccata e altro ancora. Tutti i panifici della città, per la ricorrenza, come avrai notato, continua la nonna, rimangono chiusi e a prenderne il posto sono le numerose friggitorie, sia quelle stabili che gli ambulanti, a cui si rivolgono tanti avventori. Mia sorella, ringraziandola, le spiegò che la domanda aveva lo scopo di capire se il palermitano, della festività, privilegiava l'aspetto culinario. E la nonna, che l’aveva ascoltata con interesse, le confermò che tutte le feste religiose palermitane, in effetti, erano caratterizzate da piatti e dolci tipici che ne erano il sinonimo : “U fistinu non è tale senza u sfinciuni e u pani ca meusa, disse, la festa di san Martino senza i sammartinelli, l’Immacolata senza i viscotti ca gigiulena, santa Lucia senza a cuccia, le arancine, i panelli, il Natale senza i buccellati ecc., non c’è festa religiosa o patronale che non venga coronata da un dolce tradizionale”. Sembrava che la  nonnina  avesse appagato la curiosità della mia sorellina, ma non era così perché a tavola, dopo qualche giorno, mia sorella, comunicò a mio padre che finalmente aveva completato la sua ricerca dopo la chiacchierata con il suo professore d’italiano, frequentava la quarta ginnasio, che disponibile tentò di spiegarle il rapporto tra religiosità e cibo in Sicilia: Nell’isola, disse l’insegnante, ogni festa si celebra a tavola e il legame tra la preparazione dei piatti tipici e dei dolci e la funzione religiosa è molto profonda. Partendo da qualsiasi pietanza o dolce,  si possono fare collegamenti con la storia, la mitologia ma soprattutto con la religione e la chiesa, offrendo la propria tradizione per ravvivare la spiritualità dei fedeli, avvolge le usanze pagane di religiosità, facendo sì che le pietanze e i dolci, sganciati dal significato originario di alimento, contribuiscano simbolicamente a rafforzare, attraverso i riti, la devozione. La spiritualità, che accompagna la religiosità dei siciliani, è la stessa in tutta l’isola, conclude il professore, ma è vissuta nei modi più diversi, seguendo le tradizioni familiari, la cultura e la sensibilità di ogni fedele.
E finalmente soddisfatta, mia sorella, comunicando ai miei genitori che avrebbe fatto proprie “anche” le tradizioni palermitane, chiese di poter gustare la famosa “cuccìa”, simbolo di quella religiosità che fa di ogni piatto la storia di un santo e di un territorio.
Vi presento la ricetta di questo piatto, la cui preparazione è quasi un rito nelle famiglie siciliane, sperando che vogliate prepararla e sentirne la gradevolezza e il gusto antico.

“A cuccìa”

Ingredienti
Grano tenero 500 g., una presa di sale, una punta di bicarbonato.
Tenere il grano in acqua per tre giorni, avendo cura di cambiare l’acqua ogni 24 ore. Quindi sciacquare il grano in acqua corrente e lessarlo in acqua abbondante con una presa di sale e una punta di bicarbonato e fa cuocere per circa 3 h. a fiamma bassissima. Fare raffreddare nella stessa sua acqua di cottura per tutta la notte, quindi scolarlo bene e condirlo.
Crema di ricotta: 800 g. di ricotta, 300 g. di zucchero, 100 g. di gocce di cioccolato fondente, 100 g. di frutta candita, cannella in polvere, granelli di pistacchio (preferibilmente di Bronte).

Mettete la ricotta con lo zucchero in una terrina abbastanza capiente e lavorate con le fruste. Lasciate riposare per 30 minuti quindi aggiungete il cioccolato fondente e la frutta candita a pezzetti e mescolate.
Preparazione della Cuccìa
Al grano cotto aggiungete la crema di ricotta, amalgamando bene e poi servite in piccole ciotole, spolverate di cannella e cospargete di granella di pistacchio.


(1) Il nome cuccìa viene dal sostantivo cocciu, cioè chicco o dal verbo cucciari, vale a dire mangiare un chicco. Il siciliano Joseph Vinci, ne ”Etymologicum Siculum del 1759, nella parola cuccìa, vide la parola greca còccos, equivalente al termine latino granum.

Notizie sull’origine della “cuccìa”
E’ una pietanza sicuramente molto antica che i conquistatori musulmani ci hanno tramandato: In alcune città arabe, come Tunisi o Città del Cairo, è possibile assaggiare, ancora oggi, una pietanza Kech o Kesh, constituita da grano bollito, addolcito da latte di pecora o di cammello, associato a vaniglia e cannella.
La cuccìa risulta parente anche della Kòllyva greca, una vivanda a base di grano cotto, spesso mescolato con chicchi di melograno, di uva passa, farina, zucchero in polvere, che si porta in chiesa, alla fine di una messa di requie, su un vassoio e si distribuisce ai presenti a glorificazione dei defunti; ma risulta parente anche della Kutjà russa che era a base di grano (o miglio, orzo, riso), bollito.
In Sicilia, la sua preparazione è una vecchia consuetudine che ci perviene dall’ormai scomparso mondo contadino che, in periodo di mietitura, mangiava i chicchi di grano lessati, sul posto, nei momenti di pausa.

venerdì 1 luglio 2016

Il sacro e il profano nella cucina palermitana

:
" Perché i palermitani trasformano un momento spirituale, in puro divertimento? chiese mia sorella Agnese, provocatoriamente, a mio padre.
La festa dell’Immacolata, in tutte le città e i paesi siciliani si viveva con processioni religiose, fuochi d’artificio e cibi tipici della tradizione, e a Paternò, il paesino del catanese dove avevo vissuto , l’8 dicembre era anche il momento dei preparativi del Natale: Si  decoravano i balconi con palloncini luminosi, si addobbavano gli alberi, si allestivano i presepi e si iniziava a preparare la struttura della “nuvena”: Un telaio di canne piegate ad arco, rivestito all'interno di un telaio bianco e coperto all'esterno di foglie d’alloro e nella parte anteriore di rami di biancospino, su cui venivano disposti, a coppie arance e mandarini mentre all’interno venivano appesi biscotti, mostarda, caramelle e torrone. Su una copertura di vischio, posta alla base, veniva collocato un quadro raffigurante la Madonna con il bambino o la Sacra Famiglia. La notte di Natale “a nuvena” accoglieva il Bambino Gesù.
Ci trovavamo da parecchi mesi nel paesino palermitano e papà, che si adoperava affinché partecipassimo  alle tradizioni locali, ci spiegò tutto sulla festa l'’Immacolata Concezione: "E' la patrona della città di Palermo, unitamente a Santa Rosalia e San Benedetto e i preparativi per la festa iniziano qualche giorno prima, con l’addobbo dell’albero e la preparazione del presepe, mentre le strade si vestono a festa con luci multicolori. E il pomeriggio dell’8 dicembre si assiste alla grande processione del Simulacro argenteo della Madonna dalla chiesa di San Francesco d’Assisi fino al Duomo a cui assisteva molta gente, sia in strada che affacciata al balcone di casa esponendo, secondo un’antica tradizione, la tovaglia più bella o la coperta ricamata a mano”.
Ma i palermitani, continuò mio padre, non mancano di celebrare questa ricorrenza anche a tavola: Immancabile pietanza, caratteristica proprio di questo periodo, è “u sfinciuni”, nato per sostituire, durante le feste, il solito pane, arricchito con altri ingredienti e si mangiano “ i ricce cù sucu ri cutini”, lasagne (tagliatelle larghe) al sugo con carne di maiale e salsicce al seme di finocchio, per sancire, con questo cibo, l’arrivo dell’inverno; e ancora le verdure in pastella e il baccalà fritto, gustati insieme ai parenti ed amici per poi giocare a carte. Mia sorella Agnese, timidamente, fece notare a mio padre che, dal racconto, emergeva l’attenzione dei palermitani all’aspetto profano della festa: “Ti ricordi, papà, disse, come durante la processione di Santa Rosalia, molti partecipanti, “ con disinvoltura” , lasciavano la processione per fermarsi alle bancarelle, postate ai lati della strada, per mangiare “u sfinciuni” e le “crocchè” e, con la stessa “naturalezza”, riprendevano il cammino dietro il grande carro della Santa? E ti raccontammo che durante la famosa “acchianata” a Monte pellegrino le tante bancarelle e punti di ristoro erano stati “assaltati” dai pellegrini che, fu subito chiaro, aspettavano quel momento da quando erano partiti, trasformando un momento spirituale in un vero e proprio divertimento, in una scampagnata, da terminare con una bella mangiata, e lo verificammo ancora, continuò mia sorella, durante la festa di San Martino dove l’aspetto gastronomico la fece da padrona: Gli anelletti al forno, “u adduzzu agglassatu”( galletto) con le patate, i primi cavolfiori affogati, la prima ricotta e il pranzo si concludeva con le “sfinci” di San Martino, i biscotti “sammartinelli” e le “reginelle” o viscotti cà gigiulena. Le donne, infatti, trascorrevano le giornate in cucina a preparare pietanze della tradizione e proprio per questo, ci ricordò la vicina di casa, era buona creanza, che non si andasse in casa altrui il giorno 10 e soprattutto l’11 novembre perché tutte le donne erano alle prese con i manicaretti e una visita improvvisa, rallentava il lavoro ed equivaleva alla tacita richiesta d’invito. Mio padre, sorridendo sotto i baffi, li portava veramente, perché probabilmente gli era piaciuta l’analisi attenta, fornita da mia sorella, rispose: Le feste religiose hanno sempre due facce della medaglia, una sacra e l’altra profana e la cucina ha un ruolo importante. In occasione delle grandi feste, vengono preparati piatti di solito assenti dalle nostre tavole, durante il resto dell’anno e per i palermitani, il cibo è l’elemento primario di un momento sacrale, “Santo veni, festa fai” (arriva il festeggiamento del santo e fai festa), perché si sta insieme ma anche perché la preparazione di un certo cibo svolge un ruolo importante, addirittura simbolico, nel ricordare il significato che sta dietro al piatto come “i viscotti cà gigiulena”o reginelle (biscotti con i semi di sesamo), biscotti secchi di pasta frolla, buoni, friabili e fragranti, ottimi a colazione con il caffè o dopo il pasto con un vino liquoroso. E sono veramente speciali i “viscotti cà giagiulena”; io li preparo a casa da sempre e il loro odore e sapore sono inconfondibili ma quando li gusto a Palermo è tutta un’altra cosa. Spero vogliate provarci, sono deliziosi!

I viscotti cà gigiulena ( le reginelle)

Ingredienti
500 g. di farina 00; 200 g. di zucchero; 150 g. di burro, 200 g. di sesamo; 2 uova; 20 ml di latte, 1 bustina di lievito Bertolini.
Preparazione

In una terrina, mescolare la farina, lo zucchero, il lievito, il burro, le uova, 2 pizzichi di sale. Amalgamare con energia e a lungo fino ad ottenere un composto piuttosto consistente, quindi far riposare l’impasto per 2 ore.
Trascorso questo tempo, formate dei bastoncini della lunghezza di cinque centimetri e passateli per bene nei semi di sesamo fino a completa copertura della loro superficie ( se necessario spennellateli con poco latte per fare aderire bene i semi). Trasferire i biscotti in una teglia rivestita con carta da forno e cuocere in forno preriscaldato a 200° per 10 m, finché i biscotti non avranno assunto un colorito dorato, Quindi continuare la cottura a 160° per altri 10/15 m affinché i biscotti si asciughino per bene al loro interno.