venerdì 16 dicembre 2016

A nuvena di Natale e ciaramiddari


E scendevano dalla montagna, i "ciaramiddari", ricordando che il Natale stava arrivando, suonando le struggenti e caratteristiche note, per annunciare la nascita di Gesù Bambino.
La piccola via si metteva in festa: La facciata delle case si ornava di” frasche" d’arance, di immagini dei Santi e noi ragazzi ci affollavano dietro "i ciarameddari", che andavano a suonare davanti alle cappellette con la luminaria, accanto agli usci.
Era una festa di affettuosa aggregazione, di attesa per un evento in cui si riponeva la speranza di abbondanza e prosperità e per questo alla novena si portava in offerta, il meglio che si poteva trovare, in quella stagione.
Tutto cominciava dopo la festa di Santa Barbara, che terminava l’11 dicembre; a casa era tutto un fermento, per la composizione del presepe e  “a cunsata da nuvena”, la cui preparazione era compito del nonno che aveva, già, portato dalla campagna l'occorrente, per preparare la struttura e anche gli agrumi, per abbellirla.
Dopo aver preparato il telaio di canne, piegate ad arco, rivestito da un telo bianco e coperto al’esterno da foglie di alloro e, nella parte anteriore, da rami di biancospino e asparago selvatico, il nonno mi disse: “Adesso puoi collaborare, porgimi le arance, i limoni e i mandarini che disporrò, a coppie, sui rami di biancospino, tanti quanti sono i giorni in cui si celebra “a nuvena” mentre all’interno, sotto un cielo stellato, appendiamo, i biscotti, la mostarda, le caramelle, i fichi d'india, mele cotogne, nespole d’inverno e melagrani, tutti prodotti che la nonna, io lo sapevo perché l’avevo seguita in quello strano posto che mi incuriosiva sempre,  aveva preparato sul tavolo”.
Che bello, era proprio bello! E lo fu ancora di più quando, su una base di vischio il mio nonnino collocò la Madonna col Bambino, invitandomi ad inginocchiarmi e, dopo aver fatto il segno della croce, a ripetere la preghiera, mentre, per tutta la casa, si spandeva, dal braciere,  “a conca”, l’odore della buccia di arance e mandarini, che bruciavano nella carbonella.
E quando arriveranno i ciaramiddari, chiesi? Tra qualche giorno, rispose il nonno, arrivano da Maletto, con il loro abbigliamento montanaro, scendendo a dorso di muli, per animare le celebrazioni religiose.
E cosi era stato! Davanti all’altarino, dove si ripetevano gli antichi canti, c’eravamo tutti, i nonni, i familiari, i vicini, grandi e piccoli, tutti in piedi attorno al presepe e “u ciaramiddaro” di fronte; dopo che la nonna ebbe acceso le nove candeline, numero dei giorni della novena, ascoltammo, in religioso silenzio, le invocazioni e i canti di Natale e, alla fine, intonammo “Tu scendi dalle stelle”. Tutto durava, al massimo, cinque minuti e via al presepe successivo, erano tre le famiglie, e noi bambini facevano corona, ressa al nostro suonatore che riceveva, ogni volta, il solito bicchiere di vino, tanto che, dopo i primi giorni, il forte odore di ovile si mescolava ad un vago sentore alcolico;  il 24 dicembre era l’ ultimo giorno di musica e preghiere “pu ciaramiddaru” che, finalmente, poteva tornare a casa, dopo essere stato pagato.
E noi bambini che tutte le sere vivevamo una grande festa, aspettavamo, anche, con grande impazienza, il giorno della “scunsata da nuvena”, per poter gustare finalmente, i dolcetti e la frutta che erano stati appesi per abbellirla; ma tutto era nelle mani del nonno che nel disfare “a nuvena”, cioè eseguire il rito propiziatorio, che riteneva una cosa molto importante, non voleva intrusi, purtroppo, considerando il risultato vitale, per la famiglia perché le spine del biancospino, che erano state a contatto con il sacro, dovevano essere bruciate e se il fumo fosse andato verso destra, il responso sarebbe stato positivo, promettendo che l’annata del raccolto sarebbe stata ricca e copiosa, se a sinistra, sarebbe stata disastrosa e io sapevo che solo se il risultato fosse stato il primo, avrei potuto trascorrere una bella serata con il mio nonnino e pregavo che tutto andasse bene. Per fortuna quasi sempre il responso era positivo e quando questo non avveniva, io gli stavo vicino e lo consolavo.
Quanta emozione! Ancora oggi, i lontani ricordi d’infanzia mi riportano alla memoria riti, volti e affettività, ormai lontani, ma che rimangono sempre il mio scrigno di emozioni.
 





martedì 6 dicembre 2016

La Pasqua della mia infanzia: U ciciliu, la gioia dei bambini


Chiamatelo cuddura ccù l’ovu.  campanaru o cannatuni, pupu ccù l’ovu, cannileri, panareddu, palummedda o ciciliu, ma è sempre lo stesso dolce pasquale siciliano, amato dai bambini.

 Nel palermitano, la Pasqua era tutta un’altra cosa: Era finita la piccola comunità, dissipata negli appartamenti condominiali sparsi nella città, ormai era una festa cittadina.
 E io ritornavo, col pensiero, al mio paesino, al mondo semplice, alla festosa partecipazione delle famiglie, ai riti ma soprattutto al dolce che rappresentava la gioia della pasqua.
 La nonna me lo ripeteva spesso: “Il ciciliu rappresenta il tipico dono che ci si scambia, nel periodo pasquale, molto economico ma nutriente, di sapore genuino e di particolare profumo ma è anche molto colorato, grazie all’uso dei “cimini”, le codette. La preparazione, di questo dolce pasquale, si tramanda da generazioni in generazioni e costituisce un vero e proprio rito della comunità; tra il giovedì e il venerdì santo, ci si ritrova, nella cucina e tutti attorno al grande tavolo con le donne di casa e le vicine, con compiti diversi: La persona più esperta,  di regola la persona più anziana e con più esperienza, si occupa delle figure più elaborate, aiutata dalle altre donne, alcune preparando gli arredi del ciciliu e altre come spicciola manovalanza, si limitano a spennellare la pasta con l’uovo battuto”.
Ricordo bene! Era arrivato il giovedì santo, la nonna, che sapeva che avrei fatto di tutto per esserci, mi spiegò che dovevo stare lontana dalla cucina fino a quando non sarei stata chiamata: Ma perché nonna, io non disturbo, non impiccio? Lo so che vuoi aiutarmi, ma dopo che abbiamo infornato il pane, rispose: Nella “maidda” c'è la pasta lievita,  “no furnu” stanno bruciando i zucchiceddi, legna grossa, per poi infornare il pane per la settimana, quindi è meglio che tu aspetti fuori. Quando avremo riposto il pane e coperto la tavola con una tovaglia, dove lavorare la pasta per i dolci pasquali,  tu siederai accanto a me e mi aiuterai ad abbellire la pasta del ciciliu, per renderla regale, mentre la zia Nunzia comincia ad infornare.
E così era stato: Seduta vicino alla nonna, osservavo con curiosità la maestria nell'uso delle mani, la rapidità dei movimenti per creare frutta, fiori e ornamenti vari; e  il mio compito era mettere i piccioli alle mele e alle pere, modellate dalla mia mamma, legnetti ricavati dai rametti di ulivo, con l'occhiello delle chiavi fare la bordura e poi, con il ditale, fare i cerchietti sulla pasta biscottata, artisticamente intrecciata in varie forme, conigli, cesti, corone, con incastonate uno o più uova, secondo la destinazione e dove le donne poi avrebbero collocato i fiorellini, le colombine, i tralci, roselline  e piccole calle. E anche gli strumenti usati, erano i più svariati, oggetti familiari, vissuti nella vita di tutti i giorni: Ditali,  per decorazioni a puntini, coltellini, calchi di latta o di zinco o di rame o formelle di gesso e il rocchetto del filo per cucire, gli stampini in legno, tappi, l’estremità di una chiave, usata come punzone, e per ritagliare la sfoglia di pasta si usava lo “sperone”, un oggetto in metallo (di regola di rame). 
Ero affascinata, in particolare, dagli orpelli e i ricami barocchi, e dagli ornamenti con i quali la nonna arricchiva, con un lavoro laborioso, i dolci, facendoli diventare, opere d’arte; e grande fu la mia sorpresa quando, sfornati i cicilii, mi disse: “Scegli quello che ti piace di più, è il mio regalo di Pasqua”. Ero davanti a pecorelle, conigli, cestini, corone, con un uovo sodo incastonato ma anche campane, pupe, galletti e ciambelle con due o più uova: Ero indecisa, cosa scegliere, mi anticipò la mamma che mi invitò a prendere la colomba, spiegandomi che oltre ad simbolo della pace, rappresentava la festa, e, poi, ha due uova incastonate, concluse. Si, era quello giusto, l’avrei mangiato con  nonno Nino, pensai e di corsa e felice, salii al piano di sopra dove il mio nonnino, come faceva sempre, mi aspettava per cenare. Che serata e che bambina fortunata!